Per il Partito democratico l’autonomia si tradurrà in centralismo regionale

Gian Antonio Girelli
Prosegue il dibattito dei politici bresciani sulla legge Calderoli
Manifestazione contro la proposta di legge sull’autonomia differenziata - © www.giornaledibrescia.it
Manifestazione contro la proposta di legge sull’autonomia differenziata - © www.giornaledibrescia.it
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Il dibattito sull’autonomia differenziata sta avendo una lettura molto superficiale e molto lontana dalle reali motivazioni, rispetto al no del Partito Democratico.

La stanca retorica leghista della bandiera dell’autonomia, partita con la secessione e finita con l’innamoramento putiniano, è stata rispolverata dal ministro Calderoli – sì quello specializzato in leggi, a detta sua, non particolarmente azzeccate – quale estremo tentativo di recuperare consenso e centralità per la Lega nella compagine di Governo, accettando, in contropartita, di dare il via libera all’idea non solo centralista, ma persino autoritaria, di Giorgia Meloni sul premierato.

Come le due riforme possano legittimarsi a vicenda rimane un mistero, vista la loro palese contraddizione nell’obiettivo, ma l’azione di Governo ci sta un po’ alla volta abituando a questo metodo di lavoro. Ma perché un no netto e forte a questa legge? Perché l’avvio di una raccolta firme per chiedere un referendum abrogativo? Non certo per rifiuto dell’idea di autonomia. Sappiamo bene che la riforma del titolo V della Costituzione è stata promossa dal centro-sinistra, e che il Pd ha sostenuto il referendum regionale lombardo, teso a chiedere più autonomia.

Così come è noto che Regioni governate dal centrosinistra, in particolare l’Emilia Romagna, hanno in modo virtuoso chiesto di avere più autonomia. Un’autonomia però virtuosa che delega alle Regioni e agli enti locali le competenze che meglio la periferia riesce ad adempiere rispetto al livello nazionale. La nostra idea di autonomia però non ritiene minimamente praticabile la frammentazione regionale di settori strategici come l’ambiente, l’energia, la sicurezza sul lavoro, il commercio estero, l’istruzione, per fare alcuni esempi tra i 23 previsti dalla riforma, ambiti che richiedono, invece, la ricerca di alleanze europee per reggere le sfide che abbiamo di fronte.

La nostra idea di autonomia ritiene che anche la Sanità non può più essere gestita da 21 sistemi diversi, ma deve tornare ad essere un servizio nazionale, capace di investire su prossimità, territorio, prevenzione, ricerca, educazione a stili di vita corretti, salubrità dei luoghi in cui si vive, sicurezza dei luoghi in cui si lavora, perseguendo obiettivi nazionali, come indicato dalla nostra Costituzione.

Ma soprattutto, secondo un’idea di autonomia che parte dai Comuni, ne valorizza il ruolo nella lettura dei contesti, nell’analisi dei bisogni, nella programmazione delle risposte, nella agibilità e certezza dei finanziamenti, facendoli diventare parte fondante di uno Stato unito negli obiettivi, uguale nel garantire i diritti, capace di adeguare strumenti e metodi alla diversità dei territori, cercando efficienza, economicità, sostenibilità, partendo da un principio di solidarietà, vedendo l’autonomia come lo strumento di costruzione dell’unità, non certo di spaccatura e diversità.

L’esatto opposto della riforma Calderoli che, invece, punta su un centralismo regionale, spesso davvero insopportabile, mortifica i Comuni, oggetto proprio in concomitanza con l’approvazione della legge Calderoli, di ulteriori tagli finanziari, ridotti ad esecutori di scelte regionali, mortificati – è notizia di questi giorni – persino nella loro autonomia rispetto le scelte urbanistiche da regole nazionali impositive e tese a «condonare» varie forme di abusivismo.

Altro aspetto di criticità della legge è la circostanza che non vi sono le coperture finanziarie, e senza soldi non si possono attuare le leggi, creando una incertezza finanziaria che potrebbe sfociare addirittura in nuove tasse. Caso emblematico i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), nelle leggi gli acronimi sono davvero pericolosi, che per essere attuati da ogni Regione richiederebbero risorse che ad oggi nessuno sa dove e come reperire. Tant’è che proprio per questo, nella narrazione sussurrata dagli esponenti del partito della Presidente Meloni, il messaggio che passa è: «Tranquilli non ne uscirà nulla di che, avanti con la riforma vera, il premierato».

Queste le ragioni di un fermo NO, accompagnato dalla consapevolezza che la necessità di una messa a punto del Titolo V rimane, ristabilendo il valore di un indirizzo nazionale che guardi all’Europa, realizzato attraverso la specificità della vera espressione dell’autonomia: i Comuni. Perché accanto al NO si tratta di mettere a punto un serio COME. Questa la sfida che il PD deve saper lanciare.

Gian Antonio Girelli - Deputato partito democratico

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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