Pasqua senza pace: perché oggi è così difficile fermare la guerra

Oggi il nemico è un’ideologia, uno stato nazionale, una visione del mondo contrapposta. E quella visione, per arrivare alla pace, dev’essere sradicata
Soldati ucraini al fronte - Foto Epa/Str © www.giornaledibrescia.it
Soldati ucraini al fronte - Foto Epa/Str © www.giornaledibrescia.it
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Una nuova Pasqua senza pace. Mentre celebriamo la Resurrezione, attorno a noi ci sono guerre che paiono interminabili e che non solo causano morte e disperazione nelle popolazioni direttamente coinvolte, ma hanno indubbiamente reso il mondo un posto meno sicuro. Anche la tregua pasquale annunciata da Putin, limitata a due giorni sul fronte ucraino, non cambia la sostanza: non è la pace, ma una pausa. Ma perché è così difficile fare la pace?

Il presidente americano durante la campagna elettorale aveva dichiarato che avrebbe fermato la guerra in Ucraina nell’arco di ventiquattro ore. Non era una dichiarazione credibile e infatti non si è realizzata. Peraltro anche nel raccontare le guerre vengono sovrapposti termini con significati differenti: cessate il fuoco, tregua, pace. La breve sospensione pasquale di tutte operazioni militari annunciata dal Cremlino ne è un esempio evidente: un gesto simbolico, certo, ma che nulla dice sul futuro del conflitto. Il punto è che il raggiungimento della pace – vera, duratura – è ormai diventato un compito decisamente arduo, nonostante tutti la invochino. Le ragioni di questa difficoltà sono innanzitutto concettuali. I movimenti pacifisti e più in generale tutti quando pensano alla via per la pace si rifanno a una visione kantiana. Ma fare la pace oggi è più difficile di quanto non lo fosse al tempo di Kant.

Non perché il mondo sia più crudele. Ma perché è cambiata la natura degli attori internazionali, della guerra e con essi è cambiato anche il modo di immaginare la fine di un conflitto. Alla fine del Settecento – quando Kant scrisse «Per la pace perpetua» – gli Stati europei erano dinastici. I territori appartenevano al sovrano, non alla nazione. Perdere una guerra poteva significare perdere una provincia, un titolo, un diritto dinastico. Ma non significava necessariamente perdere sé stessi. Si combatteva per potere, per influenza, per equilibri. E si faceva la pace negoziando, spesso tra pari. Era una guerra limitata. Con regole, eserciti, confini che all’occorrenza potevano variare per compensare una sconfitta sul terreno.

Due secoli dopo, tutto è cambiato. Le grandi guerre del Novecento non sono finite con un trattato, ma con una resa, il crollo e perfino la scomparsa di imperi e Stati. Il nemico non è più un altro sovrano: è un’ideologia, uno stato nazionale, un sistema di valori, una visione del mondo contrapposta. E per arrivare alla pace, quella visione deve essere sradicata. La perdita di una porzione di territorio ha una valenza persino superiore alla perdita dell’identità stessa. Da Kant si torna a Tucidide (dominare o essere dominati), ma per arrivare a Carl Schmitt e all’idea di nemico assoluto, che deve essere annientato. Il XXI secolo ha ereditato questa logica. Le guerre sono tra regimi, blocchi, entità che spesso non si riconoscono neppure come legittime. L’altro non è un avversario con cui negoziare. È un nemico da neutralizzare. La pace arriva – se arriva – solo dopo l’annientamento. Per primi i regimi democratici non sono disposti a negoziare cessioni territoriali, visto che il territorio innerva esso stesso l’idea di Stato-nazione e di identità nazionale.

Se poi come nel caso dell’Ucraina un regime democratico si trova a fronteggiare un’autocrazia come la Russia, lo scontro è inevitabilmente ideologico non solo dal punto di vista dell’interesse nazionale ma dal punto di vista valoriale. Dunque oggi la pace è più lontana. Perché presuppone un riconoscimento reciproco che la guerra stessa tende a distruggere. E perché, nella logica della lotta esistenziale, non c’è spazio per il compromesso, per il negoziato. Per la pace. E questo ci spiega anche perché a Kiev sono così resistenti di fronte all’idea di concedere territori, finanche la Crimea persa già nel 2014: è una questione identitaria ma soprattutto ideologica ed esistenziale. Non è nemmeno un caso che Trump ed i suoi negoziatori, abbiano proposto una soluzione del conflitto incardinata su concessioni territoriali: una linea che riflette quella torsione imperiale impressa alla politica estera americana (basti pensare al caso della Groenlandia).

Oggi Kant appare lontanissimo. Eppure resta necessario pur in uno scenario che richiama più Tucidide. Perché senza un’idea di pace giusta, anche solo come orizzonte, rischiamo di rassegnarci a una guerra senza fine. Dove la vittoria non basta, e la pace non arriva. Ma non possiamo, in ogni caso, accontentarci della visione kantiana come prospettiva. E allora cosa resta? Nel giorno di Pasqua e della Resurrezione non resta che la Speranza. La sua potenza può spingerci a cercare e a immaginare nuove vie per giungere alla risoluzione di conflitti che appaiono senza fine, in un mondo di lacrime.

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