Il «movimentismo» di Salvini rischia di diventare disorientamento

Giorgia Meloni si è presentata oggi a Parigi alla riunione dei «Volenterosi» sull’Ucraina indetta da Macron e Starmer con una posizione chiara: niente soldati italiani sul campo se non sotto le bandiere dell’Onu o quantomeno in una missione consentita dalle Nazioni Unite. Solo se ci fossero quelle condizioni, Roma aderirebbe ad una missione di peacekeeping. Su questo il centrodestra, riunitosi ieri a palazzo Chigi, è unito, e la cosa fa notizia perché veniamo da giorni in cui la premier ha dovuto assistere ad una polemica senza esclusione di colpi tra il ministro degli Esteri Tajani e Matteo Salvini.
E così, mentre sulla politica estera Meloni e Tajani viaggiano abbastanza d’accordo (al netto della vicinanza politica di Meloni a Trump che Tajani declina esclusivamente nei binari della tradizionale amicizia tra Italia e Stati Uniti), è proprio Salvini che provoca il continuo «fuori programma» che manda in tilt la coalizione. Basti citare la telefonata al vicepresidente Usa Vance che il leader leghista ha fatto senza che la Farnesina ne fosse informata o le espressioni in agrodolce che un fedelissimo di Salvini ha indirizzato a Tajani, descritto come un «ministro in difficoltà che dovrebbe farsi aiutare».
E come non citare la risposta di Tajani che se la prendeva con i «populisti quaquaraquà». Per questo è stato necessario il vertice di ieri: per mettere tutti in riga. È vero che Salvini è sotto congresso e quindi deve lanciare i suoi fuochi d’artificio, anche se ha già vinto a tavolino per assenza di competitori nonostante i mugugni di governatori e colonnelli vari. E anche nonostante la crisi elettorale che continua a perseguitare il Carroccio: forse allora non è un caso che le elezioni in cinque regioni previste per ottobre ora si dice che il centrodestra potrebbe farle spostare in avanti fino addirittura alla primavera 2026. Questo dovrebbe riportare un po’ di calma nella coalizione e ricondurre Salvini a ciò che ha fatto in questi tre anni di guerra: qualunque fosse la sua dichiarazione quotidiana, ha sempre votato disciplinatamente a favore degli aiuti, anche in armi, che l’Italia ha mandato a Zelensky.

Il «movimentismo» salviniano, molto trumpiano e poco incline a sconfessare le vecchie simpatie per Putin, può essere spiegato in termini di politica di partito ma anche come una ricerca di posizionamento politico. La Lega non è più quella del «Prima il Nord, Roma ladrona», ma non è neanche diventata la «Lega nazionale» che Salvini ha provato a costruire. Di qui un certo disorientamento che, nella testa del leader, potrebbe essere combattuto indossando una veste di destra tradizionalista, euro-scettica, anti-woke, alla maniera di Marine Le Pen, dell’olandese Geert Wilders se non addirittura dell’AfD tedesca. È un posizionamento che, nelle intenzioni, dovrebbe far rifluire verso la casa madre i voti leghisti (e i parlamentari) scivolati verso FdI e Forza Italia. Ma è verosimile che una leadership forte come quella di Giorgia Meloni impedisca questa risacca dell’elettorato: in questo caso non resterebbe a Salvini che persistere nel suo «movimentismo» ignorandone i rischi sulla tenuta del governo.
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