Manovra: bene il deficit in calo, ma restano molti nodi irrisolti

L’altroieri, la manovra di bilancio 2026-2028 ha ricevuto la «bollinatura» da parte della Ragioneria Generale dello Stato. Vidimazione che consente l’avvio dell’iter in Parlamento. Diciamo subito che vi sono «piccoli bagliori di un crepuscolo». Da un lato, infatti, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, riesce finalmente a riportare il deficit (cioè il divario tra spesa ed entrate) appena sotto il 3% del Prodotto interno lordo (Pil), chiudendo dunque la procedura d’infrazione (per eccessivo indebitamento) aperta qualche anno fa dalla Commissione europea: bene!
DPB, Giorgetti: nella manovra sostegno a potere d’acquisto e sostenibilità conti pubblici
— MEF (@MEF_GOV) October 15, 2025
Il ministro ha presentato in cdm il documento da trasmettere alla Commissione Ue e illustrato il ddl bilancio da circa 18 miliardi medi annui
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Il Governo spera inoltre che i contribuenti con un reddito dichiarato non superiore ai 50mila euro siano soddisfatti, dato che per costoro l’aliquota intermedia Irpef si ridurrà dal 35% al 33%. Tuttavia, il beneficio medio supererà di poco i 200 euro: tenuto conto che nel quadriennio 2021-24 l’inflazione si è «mangiata» circa l’8% del potere d’acquisto, è improbabile assistere a fuochi d’artificio fuori stagione. Godranno i soliti ignoti: gli evasori, che guadagnano più di 50mila euro ma ne dichiarano meno, saranno fra i fortunati. Inoltre, ad essi verrà destinato l’ennesimo condono: siamo infatti alla quinta rottamazione delle cartelle esattoriali.
Come prevedibile, le banche saranno tartassate. «Poco importa» si penserà. Avere banche robuste è nell’interesse del nostro sistema economico, ma sembra che la questione non sia importante: meglio dunque aumentarne ulteriormente il carico fiscale. Ovviamente il risultato è scontato: buona parte degli oneri sulle banche si scaricherà sui correntisti e, al tempo stesso, renderà più onerosi i finanziamenti alle imprese e i prestiti a chi vorrebbe «metter su famiglia».
Purtroppo molti problemi atavici dell’Italia rimangono irrisolti. Partiamo dalla produttività del lavoro, vale a dire il rapporto tra Pil e un’ora lavorata. Questo è di fatto invariato dal 2000, mentre, ad esempio, Francia e Germania hanno segnato un incremento attorno al 30% nello stesso periodo. Tenuto conto dello stretto legame tra produttività e costo del lavoro, i nostri cugini hanno così potuto aumentare la remunerazione ai lavoratori dipendenti del 30%. In Italia, invece, la produttività è asfittica e, di conseguenza, salari e stipendi rimangono pressoché invariati, con un peggioramento negli ultimi anni.
Visto che la presidente del Consiglio, Meloni, non ama le domande, chi scrive è costretto a porne alcune per poi tentare di dare una risposta. Perché la produttività non cresce? Perché s’investe poco in istruzione, perché la burocrazia è pesante, la giustizia è lenta; inoltre, visite ed analisi mediche sono talvolta un miraggio. Non sfuggirà al lettore che una persona malata o, addirittura, impossibilitata a curarsi è per definizione improduttiva. Le persone povere (in valore assoluto) sono 5,7 milioni. In altri termini, poco meno di un decimo della popolazione italiana rischia l’esclusione sociale e fatica a sostentarsi (Campania e Calabria sono tra le regioni europee messe peggio in Europa).
La manovra contiene provvedimenti volti a ridurre la disuguaglianza? No. E non si può nemmeno dire che la riduzione della povertà sia nel programma di Governo, visto che la bozza di bilancio copre il triennio 2026-2028 e che le elezioni politiche si terranno prima, cioè nel 2027. Si dirà: «Ma almeno ci saranno buone notizie sul fronte del debito pubblico, visto che abbiamo migliorato il nostro rating! Non è così?» No: nel documento da lui firmato, il ministro Giorgetti prevede un leggerissimo calo del rapporto tra debito e Pil nel 2027 e 2028. Dunque, chi vincerà le politiche riceverà un fardello del 137% circa.
Ma almeno le accise caleranno? In realtà, le accise sono aumentate di circa 650 milioni. Inutile dire che non verranno eliminate, come più volte promesso: dei 25 miliardi necessari per far ciò non v’è nemmeno l’ombra. Per fortuna ci sono i fondi del Pnrr (Piano nazionale ripresa e resilienza). Contro cui Meloni aveva votato, dichiarando al contempo di volere uscire dall’euro.
Paolo Panteghini, docente di Scienza delle finanze, Università degli Studi di Brescia
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