Maggioranze diverse e gli stessi errori

Dal giudice della Consulta alle nomine Rai, gli ultimi esempi della maggioranza di turno che giustifica le proprie scelte sostenendo che quelli di prima abbiano fatto lo stesso, o peggio
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Foto Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi © www.giornaledibrescia.it
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Foto Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi © www.giornaledibrescia.it
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Le polemiche sull’elezione del giudice costituzionale mancante seguono di poco quelle sulla nomina dei nuovi componenti del Consiglio d’amministrazione della Rai. In ogni caso e in ogni tempo, la maggioranza di turno giustifica le proprie scelte (volte, spesso, ad assicurarsi più posti di potere possibili) dicendo che, comunque, «quelli di prima hanno fatto lo stesso o peggio».

Non è una nuova moda esclusivamente della Seconda Repubblica, anche se col bipolarismo l’attacco ai predecessori funziona di più perché è rivolto alla «tribù nemica» (quella che di solito si accusa di ogni nefandezza, venendo ricambiati). Durante la Prima Repubblica si diceva che fosse colpa dei precedenti governi (ma la Democrazia cristiana ha governato per 47 anni di seguito e i suoi alleati un po’ meno ma comunque parecchio; inoltre, spesso cambiavano gli Esecutivi ma non i ministri, che restavano al proprio posto per anni). Il vittimismo, insomma, paga molto in politica, soprattutto se unito allo scarico di responsabilità sugli altri.

In pratica: se è vero che mi assicuro tanti posti (adducendo un «cambio di paradigma» se non «un mutamento culturale», che in realtà è una semplice occupazione del potere, non solo in ambiti istituzionali ma anche negli enti e nelle partecipate) è perché chi è venuto prima lo ha già fatto, quindi «non è peccato».

Se è possibile citare un ricordo personale, a metà degli anni Ottanta, all’università Luiss, un assistente fumava durante la lezione, quando un cartello posto a un metro da lui specificava che era vietato farlo. Quando noi studenti gli chiedemmo conto, rispose: «non vi preoccupate, potete farlo anche voi, vi autorizzo». Il principio è lo stesso: se cerco di «cambiare verso» alla Corte costituzionale facendo un po’ come Trump (che pure opera in un sistema politico-istituzionale diverso dal nostro) è perché quelli di prima l’hanno «occupata» (cosa che poi non è corretta, perché ci sono giudici di nomina togata e altri di nomina presidenziale oltre ai cinque scelti dai parlamentari).

La stessa cosa vale per la Rai: «l’avete occupata per anni, ora noi riequilibriamo la narrazione». Il problema di fondo che non si coglie o non si vuole cogliere è che entrambi i poli hanno sempre sbagliato. Il direttore di una rete o di un tg deve essere semplicemente un giornalista bravo, non uno (magari anche bravo) con una determinata connotazione politica, così come i giudici costituzionali (i quali, possibilmente, per garbo istituzionale non dovrebbero automaticamente passare dal ruolo di chi prepara i testi di importanti riforme a quello di chi le deve esaminare e giudicare alla Consulta).

Quello che resta difficile comprendere è che, in un regime di separazione dei poteri e di libera informazione, le scelte devono essere improntate solo a criteri di efficienza e professionalità. Nessuno nega ai partiti di scegliere i giudici costituzionali, i vertici della Rai, degli enti pubblici e di fare altre nomine pubbliche, ma si chiede di non farle agendo sopra le righe, cioè, dando l’impressione di occupare posti, anziché dare alle persone migliori la loro collocazione più adatta. Infine, proprio perché ogni polo va al governo avendo convinto gli italiani di essere meglio degli avversari, ci si deve comportare non come hanno fatto «quelli di prima» ma dando un esempio di riconoscimento al valore dei singoli al di là delle appartenenze politiche (anzi, ignorandole del tutto). Questo è il modo di stare nelle istituzioni, in un Paese democraticamente avanzato.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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