Libia, la lunga guerra fredda interna fra Tripolitania e Cirenaica

Le due anime del Paese si contengono il controllo delle ricchezze, mentre il terzo litigante, il Fezzan, è zona franca per ogni tipo di traffico illecito: dell’equilibrismo geopolitico ne beneficiano Mosca e Istanbul
Una veduta di Tripoli, in Libia
Una veduta di Tripoli, in Libia
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Il 29 settembre 1911 toccò al Commendator Giacomo De Martino, allora Reggente dell’Ambasciata del Regno d’Italia a Costantinopoli consegnare la missiva al ministro degli Esteri ottomano, con la quale si davano per interrotte le relazioni d’amicizia e di pace fra i due Stati, dichiarando che l’Italia si considerava da quel momento in stato di guerra con la Turchia. Motivo del contendere era la mancata tutela degli interessi e dei diritti degli italiani in Tripolitania e in Cirenaica; pertanto Roma si vedeva obbligata a provvedere direttamente alla salvaguardia di quei diritti e interessi come della dignità e dell’onore del Paese.

Si trattava certo di un pretesto, che per noi significava dare inizio alla conquista di quel «posto al sole» che fu tanto caro a Crispi. Oggi quelle due anime della Libia, con il Fezzan, dopo essere state forzatamente riunite in una unica colonia di italica memoria, parte integrante del Regno Unito di Libia di Idris ed essere sopravvissute alla Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista di Gheddafi, sono tornate ad essere anime tribali in cerca di una autonomia e di un potere, lacerti di uno Stato che Nazione non è mai stata.

E che con la caduta del regime del Colonnello hanno intravisto la possibilità di riappropriarsi delle diverse fonti di ricchezza del Paese: dai pozzi e dai terminal petroliferi, alle antiche vie carovaniere nel deserto che oggi portano migranti, armi e droga, sino a valorizzare la propria posizione geografica in chiave geostrategica nei confronti delle nuove ambiziose potenze del Mediterraneo: Turchia e Russia.

Delle tre Libie, oggi il Fezzan rimane estraneo ai grandi giochi di potere, intento a sfruttare la propria centralità nel deserto per farsi ponte tra il Sahel e il Mediterraneo: una zona franca per ogni tipo di traffico illecito. Il terzo tra i due litiganti che si contendono il potere reale del Paese: quello petrolifero e geostrategico. Ed è proprio tra i giochi di potere tra Tripolitania e Cirenaica che si è ritrovata invischiata la delegazione dell’Unione Europea della quale faceva parte, tra gli altri, anche il ministro Piantedosi, vedendosi respinta alla frontiera.

Il segnale inequivocabile di un dualismo strutturale e persistente tra le due entità che incarnano visioni opposte del potere e della legittimità. Attori rilevanti che non dialogano, ma si fronteggiano per il controllo delle ricchezze e del riconoscimento internazionale e che da oltre un secolo si ignorano, si temono e si combattono.

La Tripolitania, la costa occidentale che ha guardato a Istanbul, a Tunisi e poi a Roma, dove oggi siede il Governo di Unità Nazionale, riconosciuto dall’Onu, sostenuto militarmente dalla Turchia, alimentato finanziariamente dal Qatar. Un governo che tenta con ogni mezzo di mantenere la legittimità internazionale formale, anche grazie al controllo della Banca Centrale e della National Oil Corporation, attraverso le quali può continuare a far transitare verso Tripoli i proventi del greggio. Questo è uno dei grandi paradossi del Paese e il principale nodo del contendere.

Nonostante la Cirenaica detenga circa l’80% delle riserve petrolifere libiche e controlli la maggior parte dei terminali di esportazione nella Mezzaluna petrolifera, è la Tripolitania a beneficiare degli introiti derivanti dal commercio di greggio, che nel 2024 sono ammontati a 15 miliardi di dollari, contro i 600 milioni esportati di contrabbando dalla Cirenaica di Haftar.

Il presidente russo Putin insieme al comandante libanese Haftar - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il presidente russo Putin insieme al comandante libanese Haftar - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Un’asimmetria dovuta al fatto che le istituzioni centrali riconosciute dalla finanza internazionale hanno sede a Tripoli e operano in stretta connessione con il Governo locale. Di conseguenza, tutti i proventi dell’export confluiscono nel circuito finanziario della capitale, consentendo a quest’ultima di esercitare un controllo politico-economico anche su aree in cui non ha la sovranità.

Al contrario i tentativi della Cirenaica di vendere autonomamente il petrolio sono limitati dall’assenza di riconoscimento internazionale e dal rischio di sanzioni, rendendo così il petrolio non monetizzabile. Haftar, con i suoi due centri di potere Bengasi e Tobruk, ha quindi deciso di volgere il suo sguardo ad est verso Mosca, interessata a entrare nelle concessioni energetiche della regione, ma anche a fare della Cirenaica uno dei pilastri della proiezione russa nel Mediterraneo centrale e in Africa settentrionale, in contrapposizione politico-economica con la Turchia e militare con la Nato.

Le due Libie si fronteggiano così in un conflitto silenzioso, fatto di veti incrociati, incontri falliti, accordi disattesi, ma che gettano all’interno dello scacchiere internazionale la propria posizione strategica, funzionale agli interessi nazionali di attori ormai extra-Europei. Uno scontro che ha trasformato ogni intervento internazionale in un esercizio di equilibrismo: parlare con Tripoli significa scontentare Bengasi, volare a Bengasi senza l’avallo di Tripoli vuol dire cadere nella trappola del doppio riconoscimento. Proprio come la delegazione Ue fermata a Tobruk dai sostenitori di Haftar con l’accusa di essersi presentata senza autorizzazione del «governo legittimo».

Una legittimità di uno Stato che non c’è, della cui assenza a trarne beneficio è Mosca, Istanbul, ma soprattutto le tribù del Fezzan, con le loro economie criminali. Il tutto dinanzi all’inconcludenza di una politica europea che incespica tra memorandum e respingimenti.

Michele Brunelli, docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo

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