IPhone, il morso fatale alla «mela digitale»

Sta per festeggiare la maggiore età e noi suoi fedeli seguaci innalzeremo i calici, nella certezza che altri spareranno bordate a salve. Stiamo parlando dell’iPhone, l’aggeggio che ci ha cambiato la vita, e che venne presentato per la prima volta il 9 gennaio 2007 da Steve Jobs, al tempo amministratore delegato di Apple. La data segna l’approdo di una rivoluzione tecnologica e l’inizio di un’evoluzione antropologica.
L’iPhone, come prototipo dello smartphone, non era una novità assoluta, da almeno 34 anni si cercava un connubio efficace tra computer e telefono, con i primi tentativi iniziati nel 1973. Nel 1992 la IBM produceva Simon, nel 1997 la svedese Ericsson lanciava Penelope, ma entrambi non potevano contare su una rete di telefonia che reggesse un minimo necessario di trasmissione dati. Invece nel 2007 i tempi delle reti erano maturi e la Apple diede il morso giusto alla mela dell’albero del bene e del male.
Era una rivoluzione tecnologica che fin dall’inizio mostrava tutte le sue potenzialità. L’interfaccia touch era talmente immediato e intuitivo da spazzare via in un sol colpo tutte le remore che fino ad allora avevano frenato chi con la tecnologica non aveva dimestichezza. A prova di bambino, si diceva. Ma questa sensazione di possesso e libertà si è rivelata presto un’illusione fallace. Fino ad allora chi acquistava un telefonino diventava proprietario dello strumento e delle sue funzioni: nell’apparecchio e nella sua scheda stavano i contatti, a disposizione esclusiva del proprietario. Lo smartphone, invece, separa lo strumento dalle funzioni e dall’uso.
Attraverso software complessi e articolati, i termini e le condizioni del funzionamento sono concessi solo in licenza all’utilizzatore del device. Attraverso il meccanismo delle app, sono i produttori e gli sviluppatori di software ad averne tutti i diritti di proprietà intellettuale (e questo pare ragionevole) ma anche di sfruttamento economico (questione più ambigua). Loro decidono quando cambiare, aggiornare e di fatto rendere inutilizzabile una app costringendo l’utente a pagare (o comperare uno strumento nuovo) se vuole continuare ad avere il servizio.
La chiamano obsolescenza programmata, sostengono che è per migliorare i servizi... speriamo sia così. Da Nicholas Carr in poi l’hanno definita «mezzadria digitale»: usiamo la tecnologia, ne traiamo qualche vantaggio, ma altri sono i padroni.
Congrats to this year's App Store Award winners! From action-packed games to innovations in spatial computing, these developers highlight the community's incredible talent, hard work, and ability to transform our lives and experiences. pic.twitter.com/0qXjV7bu4Y
— Tim Cook (@tim_cook) December 12, 2024
L’iPhone ha fatto da apripista, gli altri produttori hanno cercato di superarlo. A farne le spese sono stati spesso gli utenti, vittime di company che puntavano proprio su distinzione ed esclusiva per costringere gli acquirenti ad una forzata fedeltà tecnologica. Qualche volta le autorità del commercio sono riuscite a porre dei freni: proprio in questi giorni entra in vigore, per tutto il mercato europeo, l’obbligo del caricatore universale, utilizzabile cioè per tutti i nuovi dispositivi e con uguali velocità di ricarica.
L’iPhone ha segnato anche un’evoluzione antropologica dai contorni non ancora definibili. Continuiamo a chiamarlo telefonino, ma quel parallelepipedo di policarbonio si è frapposto sempre più fra noi e la nostra vita quotidiana, facendo diventare digitali quasi tutti gli atti che compiamo. Giorno dopo giorno è diventato una nostra appendice indispensabile.
Quasi tutti abbiamo sostituito ciò che avevamo nelle borse o in tasca con questa unica piattaforma. Foto, video e ricordi. Contatti, messaggi, telefonate e lettere. Dati sulla nostra salute e fascicolo sanitario, ricette e prescrizioni mediche. Giornali, riviste, libri, film. Carte di debito e di credito. Bollette e fatture. Biglietti, prenotazioni e voucher. E ora anche i documenti: il codice fiscale, la tessera sanitaria, la patente, presto anche la carta d’identità e probabilmente il passaporto. Sempre connessi e attenti alle notifiche, sempre rintracciabili e tracciabili.
Di più: lo smartphone ci ha portato ad avere una nuova e diversa percezione di noi stessi. Le piattaforme social ci inducono a creare immagini e narrazioni compiacenti di noi e della realtà che ci circonda. Noi manipoliamo noi stessi, mentre gli altri cercano di manipolarci. Su questa strada si muovono quelli che immaginano una nuova epoca che rende sempre più labili le frontiere fra tecnica e vita, verso un futuro post-umano. Non è solo Elon Musk che sogna di mettere chip neurali nel corpo delle persone e tramite l’intelligenza artificiale potenziare le capacità umane…
L’iPhone compie 18 anni e raggiunge la maggiore età. Lo dimostra la stabilità raggiunta: la sua conformazione, il moltiplicarsi delle forze senza stravolgerne la fisionomia; anche l’AI vi è comodamente entrata. Lo strumento ha guadagnato una sua maturità. E noi, suoi seguaci, siamo diventati tecnologicamente maggiorenni? Indipendentemente dall’età anagrafica (in alcuni casi persino inversamente rispetto all’anagrafe) abbiamo nei confronti della tecnica atteggiamenti bipolari: l’incantamento puerile si accompagna alle paure infantili, l’entusiasmo ormonico adolescenziale si alterna alle crisi di rigetto depressive...
I 18 anni di iPhone dovrebbero indurci a pensare che è tempo di ragionamenti maturi, capaci di generare scelte personali sagge, a difesa di libertà e dignità, oltre alla privacy. Auguri!
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