Opinioni

Investimenti stranieri sui nostri data center

I grandi player finanziari in Italia, ma il beneficio è di breve periodo
Brad Smith, presidente Microsoft - © www.giornaledibrescia.it
Brad Smith, presidente Microsoft - © www.giornaledibrescia.it
AA

Grandi manovre attorno ai giacimenti dell’intelligenza artificiale. Ognuno degli attori si muove con il proprio stile. C’è chi lo fa con posture spettacolari, come Elon Musk che abbraccia i presidenti sui palchi di mezzo mondo, chi in modo assai formale, come Brad Smith di Microsoft che chiede udienza a Palazzo Chigi, e chi si muove nei luoghi propri della grande finanza, come Sam Altman di Open Ai e Larry Fink di BlackRock.

Tutti in azione, dall’inizio di ottobre, in Italia. Ed è un bel segnale. La mossa più formale l’ha fatta il presidente di Microsoft: il 2 ottobre, dopo un lungo incontro con Giorgia Meloni, ha ufficialmente annunciato che la sua company investirà 4,3 miliardi di euro per realizzare nuovi centri dati nel nostro Paese. Una cifra che rende quasi insignificante l’inaugurazione, fatta proprio in quei giorni, di un nuovo data center a Roma da parte di Aruba, costato solo 300 milioni. L’annuncio di Microsoft va di pari passo con un’intesa che è stata siglata negli stessi giorni tra Open Ai e la sezione di Venture capital di Cassa depositi e prestiti, sempre per sviluppi dell’intelligenza artificiale.

La parte più curiosa delle operazioni in atto viene dal fondo americano BlackRock. Larry Fink, il numero uno della galassia che gestisce 9 mila miliardi di dollari di risparmi in tutto i mondo, è stato a Roma nei giorni scorsi e si è detto interessato ad acquisire le centrali dismesse di carbone dell’Enel, come quelle di Civitavecchia e Brindisi, per trasformarle in centri di dati. Potrà apparire singolare l’accostamento fra le centrali di carbone, la più arcaica delle tecniche industriali, e l’intelligenza artificiale, la più avanzata delle innovazioni, ma così non è. Basterebbe dire che gran parte dei dati della Pubblica amministrazione italiana - tanto per fare un esempio - sono affidati a Westpole, una società che fa parte del gruppo Cegeka, nato alla fine degli anni Novanta proprio dalla riconversione delle miniere di carbone del Belgio. Sempre di giacimenti si tratta. E nel caso di BlackRock, i nomi sono presagi, come dicevano i latini.

Come interpretare queste manovre? La prima constatazione, forse la più banale ma non la più scontata, è che l’intelligenza artificiale non naviga nell’iperuranio, usa i cloud ma non sta lassù tra le nuvole, è invece solidamente piantata sul territorio, con un dispiego di energia assai consistente che non sempre viene ponderato.

La nostra attenzione viene giustamente attirata dalle affascinanti evoluzioni delle reti neuronali che fanno vincere il Premio Nobel ai fisici Hinton e Hopfield, si arrovella sulle sfide future, e finisce per non prendere in considerazione le installazioni che sorgono accanto a casa nostra. È questo che sta avvenendo, perché - ed è la seconda constatazione che emerge - tutti gli investimenti hanno come obiettivo l’allargamento della rete di depositi.

Il mondo tecnologico ama gli acronimi e finora aveva identificato i nodi nevralgici con la formula Flapd, cioè Francoforte, Londra, Amsterdam, Parigi e Dublino, i luoghi dove si intersecano i vantaggi geografici con quelli fiscali. Lo sviluppo rapido dell’Ai spinge a creare nuovi centri più vicino a dove i dati vengono prodotti, così in gioco entrano anche Italia, Spagna, Svizzera e Polonia. Lo dice uno studio del Politecnico di Milano, che valuta un potenziale di investimenti di 15 miliardi, legati all’Ai, in Italia entro il 2025. Lo stesso studio stima che l’aumento del Pil mondiale, grazie all’intelligenza artificiale, oscillerà fra il 17 e i 25 mila miliardi di dollari.

Sono soldi. Tanti. E questo giustifica l’entusiasmo di Giorgia Meloni e del Governo italiano. Stiamo davvero diventando attrattivi per gli investimenti internazionali? In parte sì, perché Milano è il punto di interesse crescente del settore. Dovremmo tuttavia valutare con attenzione le ragioni che portano le multinazionali ad investire da noi. L’esperienza dovrebbe averci insegnato che quei capitali velocemente arrivano e altrettanto repentinamente se ne vanno, se invece di essere davvero attrattivi siamo solo più facilmente acquistabili.

Vi è infine un’ultima considerazione. Queste manovre hanno come protagonisti fondi e company d’impronta americana. Sulla scena non c’è traccia di attori europei importanti. Ed è questo fronte, sul quale ci ha messo in allerta la relazione di Mario Draghi, che dovrebbe cominciare ad interessarci. Americani, cinesi... E noi?

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato

Icona Newsletter

@News in 5 minuti

A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.