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Il trapper «martire» e la buona educazione

Continua a far parlare l’esclusione di Tony Effe dal concertone di Roma
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Non si placa la polemica su Tony Effe. Anzi, più passano le ore, e più divampa, con l’esito della conversione del rapper romano (all’anagrafe Nicolò Rapisarda) in una sorta di martire, un «evento» molto italico.

E mentre alti si levano i lai in difesa di codesto novello «Giordano Bruno» a cui sarebbe stata negata la libertà di parola e di strofa eliminandolo dal concertone di Capodanno di Roma, ci vorremmo domandare se, proprio per questo, sia consentito esprimere un’opinione dissonante dal tracimante coro a suo favore.

Un’ondata scandalizzata che lo dipinge appunto alla stregua di un «perseguitato» da parte del sindaco della capitale, il quale si troverebbe ostaggio di alcune femministe colpevoli di considerare «ingiustamente» sessisti i testi delle sue canzoni (che, per togliere ogni allure poetico-letteraria al personaggio, va detto che effettivamente tali sono).

Come prevedibile, a intonare per primi le geremiadi contro la «censura» di cui sarebbe stato vittima - tipico esempio di vittimizzazione secondaria… – sono stati vari colleghi dello show business (alcuni dei quali, per inciso, condividono con lui anche etichette e case discografiche), giovani e meno giovani.

Per essere precisi, lo sbaglio autentico del primo cittadino romano è stato quello di rivolgergli un invito per poi ritirarlo. Un gesto maldestro (e un errore tattico) da parte di Roberto Gualtieri che non cancella, però, la questione di fondo, sempre ammesso e non concesso che nel Paese in cui tutti si ergono a campioni della libertà d’espressione del predetto rapper risulti ancora lecito sostenere una posizione differente.

I divieti non sono mai utili, si argomenta da parte di questo fronte che ha inopinatamente trasformato l’ex solista della Dark Polo Gang nell’Alfred Dreyfus della musica italiana. Ecco, spesso è vero, ma qualche volta no. E in questo non si tratta di un divieto, ma di una scelta politica da parte di un ente pubblico, che ha tutto il diritto di esercitarla.

Non si capisce, infatti, la motivazione per la quale la (sedicente) libertà debba prevedere che va sempre bene tutto ma proprio tutto - un tema rispetto a cui ci aveva già messo in guardia, in tempi pre-hip hop, un signore francese di orientamento illuminista che rispondeva al nome di Voltaire -. Chi vuole ascoltare il Rapisarda è liberissimo di esercitare il suo diritto di scelta, per l’appunto, sul mercato, comprando i prodotti musicali che sforna a ripetizione. Perché di questo si tratta: di una merce, e il mercato deve assolutamente e inequivocabilmente essere svincolato, senza che questo comporti al contempo alcun obbligo di acquisto per il pubblico.

Se passiamo dal livello del mercato a quello dei contenuti e dei prodotti di tipo culturale (o, per meglio dire, sottoculturale, nel senso della subcultura rap), ecco che allora si capisce ancora di più la scelta capitolina.

Nessuno sta dicendo qui che il rapper in questione sia un poco di buono, avendo mostrato soltanto una certa attitudine a ritrovarsi protagonista di risse con qualche collega – ma ovviamente non è nulla in confronto ai trapper pregiudicati che rubano e sparano, e finiscono in galera.

Il punto, nondimeno, è che i suoi testi non rappresentano dei componimenti poetici, non dispongono di un valore letterario, e veicolano un «paradigma» delle relazioni fra uomini e donne sbagliato e prevaricante (con un ampio catalogo di insulti sessisti nei confronti dell’universo femminile). Questa tipologia di musica rap - insieme al genere trap - risulta pertanto fortemente diseducativa. E, dunque, non si capisce perché non lo si possa dire o scrivere (a proposito di libertà di espressione negata davvero, in questo caso) da parte di persone di ispirazione cattolica o, come nella fattispecie, di donne di sinistra o, anche, più genericamente, di individui con una sensibilità che rigetta la volgarità gratuita.

Se, quindi, certi eccessi di isterismo woke sono davvero un problema e si rivelano altrettante forme inaccettabili di intolleranza, per contro non si dovrebbe correre all’altro estremo di esaltare qualsivoglia stupidaggine e l’idea che le donne siano meri oggetti sessuali per trapper. Non è questione di patriarcato, ma di buona educazione, appunto, e di rispetto, parola dell’anno per la sempre venerabile Treccani.

La concezione secondo cui «tutto va bene madama la marchesa» dal momento che il pubblico premia un certo tipo di prodotti può essere non condivisa, oppure chi si permette di avanzare dei dubbi in materia deve subire sempre l’accusa trita e ritrita di essere – ohibò, che vergogna! – il «solito moralista»?

L’arte non deve essere pedagogica: giusto. Ma si dovrebbe, altresì, poter liberamente pensare (e a ragion veduta…) che i trapper e certi rapper non siano precisamente degli artisti. E che proferiscano con un certo tasso di frequenza delle sequenze di sciocchezze sgrammaticate. E, conseguentemente, non dovrebbe risultare obbligatorio che i contribuenti tutti paghino la Tari per sentire le loro pseudostrofe. Tu chiamalo, se vuoi, buon gusto ed educazione musicale. E, di certo, non censura.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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