Il terrorismo e le fragilità della democrazia Usa

Il 2025, con la strage a New Orleans, si apre con il ritorno della paura interna negli Stati Uniti
Dopo la strage a New Orleans - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Dopo la strage a New Orleans - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Il 2025 si apre con il ritorno dell’incubo del terrorismo interno negli Usa. E non del terrorismo e della violenza politica con i quali si erano dovuti fare i conti negli ultimi anni: quello mirante a colpire simboli dei governi federali e statali o leader politici, come Donald Trump o l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi; e quello di matrice suprematista bianca, che ha ispirato una maggioranza degli attentati dell’ultimo decennio.

A New Orleans abbiamo un’azione compiuta in nome e per conto dell’Isis e del radicalismo islamico. Con tutte le potenziali implicazioni politiche e securitarie del caso, come le immediate (e improvvide) dichiarazioni di Trump - che ha subito collegato quanto accaduto alla questione dell’immigrazione - hanno ben evidenziato. Nei giorni a venire avremo più informazioni sull’attentatore, Shamsud-Din Bahar Jabbar, e sulle sue motivazioni. Per il momento sappiamo che è un cittadino statunitense e non un immigrato; che si è convertito all’Islam diversi anni fa; che ha un passato nell’esercito, due divorzi alle spalle e negli ultimi anni ha avuto diversi problemi economici.

Quello di Bahar Jabbar appare insomma il profilo classico di un uomo alienato e in difficoltà, facilmente catturabile da idee radicali e violente. E però ciò non deve indurre a minimizzare il significato e le potenziali conseguenze di quanto accaduto a New Orleans. Questo per almeno tre ragioni.

La prima rimanda proprio alla fonte d’ispirazione dell’azione terroristica: a quel cupo drappo nero dell’Isis ritrovato nel pick-up utilizzato per falciare il maggior numero possibile di persone. Un simbolo di morte e violenza, quella bandiera, evidentemente ancora in grado di sollecitare l’immaginario di taluni. Non sappiamo se Bahar Jabbar abbia agito da solo, se stia anch’egli in quella categoria di «cani sciolti» responsabili di tante azioni terroristiche recenti, o faccia parte di una rete più estesa.

Se esistessero dei complici e una qualche struttura magari in quella comunità islamica di Houston dove Bahar Jabbar viveva, la vicenda risulterebbe ancor più problematica. Ma anche laddove si trattasse di un’azione solitaria è chiaro che il terrorismo di matrice religiosa è un qualcosa con la quale si deve continuare a fare i conti, anche perché i suoi veleni e il suo culto della violenza continuano a diffondersi con facile tossicità sui social e sui canali che Isis e altri gruppi hanno imparato a usare e sfruttare.

La seconda ha a che fare con il contesto statunitense. Negli ultimi quindici anni sono aumentati esponenzialmente gli atti di terrorismo interno negli Stati Uniti; ciò è avvenuto in parallelo con l’inasprirsi e il polarizzarsi della contrapposizione politica. Sondaggi alla mano, una percentuale crescente di elettori di entrambe le parti dichiara di comprendere e finanche giustificare il ricorso alla violenza come strumento di azione politica. E d’altronde solo quattro anni fa assistemmo a un tentativo di impedire con la forza il riconoscimento del risultato del voto. La difficoltà patente della democrazia statunitense pare insomma contribuire a creare un terreno di coltura favorevole a derive violente che, numeri alla mano, sono sempre più frequenti.

E questo ci porta alla terza e ultima ragione: non è solo quella statunitense a essere una democrazia in difficoltà; non sono solo gli Usa a doversi confrontare con la minaccia del terrorismo di matrice fondamentalista o con il rischio che individui fragili e radicalizzati possano essere catturati dal culto della morte di Isis e altre organizzazioni. Ce lo indica in una certa misura la stessa modalità di quanto avvenuto a New Orleans: quell’auto lanciata sulla folla diventata da Nizza 2016 in poi strumento sempre più frequente ed emulato, quasi «transnazionale», di azione terroristica.

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