I talebani vogliono spersonalizzare le donne

Una nuova assurda direttiva vieta loro di truccarsi, cantare e leggere in pubblico
Donne afghane avvolte dal burqa - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Donne afghane avvolte dal burqa - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Il Ministero afghano per la «diffusione della virtù e la prevenzione del vizio» ha qualcosa di orwelliano, sia - oltre al suo stesso nome - nel modo utopistico di concepire una realtà pura, ideale, che riflette l’attuazione in terra di insegnamenti religiosi immutabili concepiti oltre quindici secoli fa e pertanto anacronistici, sia nel modo distopico di realizzarla, a scapito di una violazione continua e sempre più pervasiva dei diritti umani, fondamentali e inalienabili.

È ciò che accade in Afghanistan da quando, all’indomani della ripresa del potere da parte dei Talebani nell’agosto del 2021, venne eliminato il Ministero per gli affari femminili e ripristinato questo nuovo Dicastero, vera fucina della violazione dei diritti individuali, il cui obiettivo non celato è di arrivare alla completa spersonalizzazione della donna. Da qualche giorno il Ministero si è dotato di un nuovo strumento legislativo nel quale in 35 articoli enunciati in 114 pagine si vieta alla donna la propria identità e individualità, attraverso la negazione della loro quotidianità.

Secondo le nuove norme, che vanno ad inasprire già quelle introdotte negli ultimi tre anni, a una donna è fatto divieto di profumarsi, di truccarsi, ma anche di leggere in pubblico, cantare o recitare poesie, pratica assai diffusa nel contesto afghano-iranico, che mantiene viva l’amore per la cultura e la sua trasmissione anche orale, in un contesto nel quale essa è a loro preclusa, come l’istruzione.

Si vuole colpire la voce femminile considerata fonte di corruzione dei costumi. Ora è fatto altresì divieto di rivolgere lo sguardo a un uomo, a meno che non vi sia un vincolo di sangue, né di potersi spostare senza un tutore, maschio, appartenente alla famiglia, precludendo la capacità di movimento da sole, che fino all’introduzione di questa nuova legge consentiva loro, pur con difficoltà, di poter viaggiare entro un raggio di 70 km dal luogo di residenza.

Sembra di rivedere, in tutta la sua tragicità, una delle sequenze più grottesche del bel film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, Viaggio a Kandahar, che già nel 2001 descriveva le assurde regole imposte dai nuovi governanti dell’Afghanistan. Tra queste la visita medica di una giovane donna costretta a chiedere al suo accompagnatore, un parente diretto, di mostrare al dottore quale fosse la parte dolente, nell’impossibilità di eseguire un accertamento diretto a causa della differenza di sessi e del divieto imposto alle donne di esercitare la professione medica.

Una donna afghana con il proprio bambino per le strade di Kabul - Foto Epa/Samiullah Popal
Una donna afghana con il proprio bambino per le strade di Kabul - Foto Epa/Samiullah Popal

Ma a differenza di ciò che accadde oltre vent’anni fa, una seppur flebile voce di opposizione sembra oggi levarsi dall’oscurantismo imposto dai Talebani. Una voce che si propaga attraverso i social media, anch’essi rigorosamente proibiti, ma nonostante ciò riesce a penetrare la coltre di divieti e che spinge giovani donne a girare brevi video nei quali cantano mostrando una parte del loro volto, attente a rendersi irriconoscibili. Video rilanciati in rete grazie anche dalla diaspora femminile afghana che divengono presto virali, così come parte dei testi che subito si trasformano in slogan rivoluzionari, come ad esempio: la mia voce non è vietata.

La voce che diviene simbolo di esistenza e di identità. Si tratta di una forma di protesta creativa e non violenta e che ricorda molto quelle messe in atto, nel corso degli ultimi due decenni delle donne iraniane, contro l’imposizione del velo e che fecero dei video e di hashtag quali #Mystealthyfreedom (La mia libertà furtiva), con il quale si invitavano le ragazze a farsi ritrarre senza velo o #enoughwithhijab le parole d’ordine della loro opposizione alle leggi iraniane sull’abbigliamento femminile e, soprattutto di ribadire il diritto di scelta individuale di sentirsi libere di indossare ciò che si desidera, ma soprattutto di richiamare l’attenzione su certe forme di sessismo e su talune ineguaglianze alle quali sono costrette a confrontarsi quotidianamente.

La situazione in Afghanistan risulta essere molto più drammatica, soprattutto alla luce di quest’ultimo tassello legislativo considerato dal governo islamico un ausilio fondamentale per la promozione della virtù, ma in realtà volto ad imporre un apartheid di genere. Piccoli segni di resistenza, purtroppo non ancora di speranza, oltre dalle flebili ma fiere voci che riecheggiano sul web, sono offerti anche dagli strumenti informatici. Per aggirare la proibizione alle bambine afghane di frequentare la scuola secondaria e l’università, si stanno moltiplicando specifici corsi a distanza elaborati da istituti, università organizzazioni di diversi paesi per offrire alle donne afghane uno spazio sicuro per continuare a imparare, cercando di colmare il vuoto educativo che i Talebani intendono realizzare. In fondo sono perfettamente coscienti che l’istruzione di massa può essere la vera arma di distruzione del loro regime becero e violento.

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