I dazi cinesi e l’incognita Ue sulle strategie produttive

Sono conciliabili restrizioni al libero commercio e liberi investimenti esteri? Oppure i secondi possono aggirare i primi? In più, non vi è il rischio di far scattare un meccanismo per cui un dazio tira l’altro, dando luogo a un’escalation protezionista?
Pare proprio sia così. Ne sono esempio i dazi posti dall’Ue nei confronti dell’auto elettrica cinese. Dall’inizio di luglio ne sono scattati di nuovi, voluti dalla Commissione europea uscente.
Alle importazioni di e-car, già gravate di una protezione del 10 per cento, si è aggiunto un gravame variabile (a seconda dei sussidi ricevuti da questo o quel marchio) fissato tra il 17 e i 38 per cento.
I nuovi dazi sono anche una risposta a quelli introdotti (portando la protezione al 100%) dagli Stati Uniti, pure questi voluti da un’amministrazione uscente. Come risposta la Cina sta indagando sui sussidi europei alla produzione di carne suina, e mira ad applicare un dazio, ancora da definire, agli 800 milioni di tonnellate importate dall’Ue.
I sussidi cinesi, questo è l’argomento di Bruxelles, distorcerebbero la concorrenza a danno dei produttori europei: è questa la faccia offerta della medaglia dazio. La faccia della domanda riguarda gli acquirenti, per i quali le e-car diverranno più onerose. La transizione energetica, il Green Deal, ha portato all’introduzione di generosi sussidi per l’acquisto di e-car, così come al divieto di immatricolazione di auto con motore a scoppio dal 2035, ma resta da vedere come il tema sarà affrontato dalla prossima Commissione von der Leyen.
Allo stato attuale, tuttavia, l’Europa rinuncerà a una produzione nella quale ha un vantaggio comparato (motore a scoppio), inseguendone una nella quale la Cina ha, a sua volta, un vantaggio comparato (motore elettrico). Lasciare una produzione nella quale si è competitivi per buttarsi in una nella quale rincorriamo chi è tecnologicamente più avanzato non pare la miglior scelta.
L’Ue è di gran lunga il maggior esportatore di prodotti automotive, con circa 650 miliardi di euro, seguita da Stati Uniti con 130, mentre la Cina si ferma a 113 (dati Wto). La storia va ripetendosi. Quando negli anni ’70 e ’80 del Novecento si applicarono quote all’auto giapponese, i produttori del Sol levante vennero a investire e produrre da noi. Ora i cinesi si apprestano a fare altrettanto, con progetti in Ungheria e in Turchia. Con i primi per sfruttare le opportunità del mercato unico, con i secondi per avvalersi delle facilità dell’Unione doganale.

Protagonista è la casa Byd (Build Your Dream), specializzata nelle e-car. Il paese di Orban, è già hub nella produzione di auto, coi giapponesi di Suzuki, nonché i tedeschi di Mercedes Benz, Audi e Bmw, si appresta a costruire un impianto nel sud ungherese. Poi vi è la Turchia, anch’essa determinata a divenire un hub nella produzione di e-car. È di questi giorni l’accordo tra il governo di Recep Erdogan e Byd, questa investirebbe un miliardo di dollari nella costruzione di un impianto volto a produrre 150.000 auto all’anno con la creazione di 5.000 posti di lavoro, in massima parte da destinare al mercato europeo.
🇮🇹🇨🇳Al via la missione del ministro @adolfo_urso in Cina. Questa mattina, nella sede dell'Ambasciata italiana, l'incontro con il Presidente di CCIG (China City Industrial Group), Gu Yifeng, e il presidente di @CheryAutoCo, Yin Tongyue.@ItalyinChina pic.twitter.com/h7T7GM8JE7
— MIMIT (@mimit_gov) July 4, 2024
Ma le cose non finiscono qui perché, se un dazio tira l’altro, un investimento estero fa altrettanto. Così altri produttori cinesi sono pronti a insediarsi in suolo anatolico. Spetterà alla prossima Commissione europea tornare sul tema della politica industriale e di quella commerciale con la Cina. Non perseguiamo cose inconciliabili.
Maggiori dazi penalizzano il consumatore, sono aggirabili con gli investimenti esteri. Insistiamo sui nostri vantaggi comparati, non rinunciamo a tanta competitività, per di più quando questa è così rilevante per l’occupazione e la crescita economica.
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