Gaza, la lezione dimenticata e il ritorno al Piano Sharon

La prima volta in cui soldati israeliani entrarono nella Striscia di Gaza fu nell’ottobre del 1956, nell’ambito dell’Operazione Kadesh, coordinata con l’Operazione Moschettiere pianificata da Francia e Gran Bretagna per rioccupare il canale di Suez, nazionalizzato nel luglio 1956 dal presidente Nasser. Le truppe di Tel Aviv, dopo aver conquistato la Striscia, sotto occupazione militare dall’Egitto sin dal 1948, proseguirono l’avanzata verso la penisola del Sinai. Quello che oggi viene ricordato come il secondo conflitto arabo-israeliano fu breve ma ricco di implicazioni: l’occupazione israeliana di Gaza durò appena quattro mesi, ma lasciò un segno profondo. Per la prima volta quel territorio, già sovrappopolato da profughi palestinesi, si ritrovò al centro delle dinamiche internazionali e degli interessi nazionali di diversi paesi.
Fu soltanto l’ultimatum congiunto di Eisenhower e Bulganin a costringere Israele alla ritirata, segnando anche la fine definitiva dell’influenza coloniale anglo-francese in Medio Oriente. Ma il vero destino di Gaza fu segnato con la guerra dei Sei Giorni, la quale diede il via ad una occupazione che durò per 38 anni: dal 1967 sino al 2005. Elemento di continuità tra i due conflitti passati fu l’allora generale Ariel Sharon, che per due volte guidò l’invasione israeliana del Sinai. Ma il suo lascito strategico si estende, in modo paradossale, fino all’attuale crisi: nei primi anni Settanta elaborò la cosiddetta dottrina delle «cinque dita», che prevedeva la frammentazione della Striscia di Gaza attraverso cinque direttrici di insediamenti israeliani, concepiti per garantire un controllo militare permanente e impedire la formazione di un territorio palestinese contiguo.
Video released by the Israeli occupation forces shows the moment they blew up Al-Awda and Al-Taybeh schools in Khan Younis, southern Gaza Strip, where displaced Palestinian families were sheltering. pic.twitter.com/MTuZIyXJXc
— TIMES OF GAZA (@Timesofgaza) August 9, 2025
Sebbene mai formalmente approvata, essa venne tacitamente sostenuta e parzialmente attuata durante il governo di Golda Meir, con la nascita di insediamenti come Kfar Darom e Netzarim, che avrebbero poi costituito l’ossatura della presenza israeliana nella Striscia fino al ritiro del 2005. Hamas, che assunse il potere nel 2006–2007, non riuscì, né volle pienamente trasformare Gaza in un embrione di Stato civile, privilegiando invece la costruzione di un apparato militare e securitario, in risposta anche all’isolamento internazionale e alla frattura con Fatah.
Oggi, al 671° giorno di guerra tra Israele e Hamas, Netanyahu non solo ha visto il fallimento nel conseguire gli obiettivi strategici che sin dall’inizio si era prefissato: la liberazione degli ostaggi e l’annientamento di Hamas, ma ha anche danneggiato la reputazione del paese a livello internazionale, portando lo Stato ebraico ad un progressivo isolamento, non solo politico, ma anche economico, come dimostra la decisione di Berlino di sospendere l’esportazione di armi per 500 milioni di euro verso Israele.
I più critici osservatori israeliani chiosano che sia per ora riuscito a raggiungere un solo obiettivo per lui primario: quello della sua sopravvivenza politica. Ecco dunque che il premier ha presentato una nuova strategia che prevede l’occupazione di Gaza City e l’implementazione del controllo di sicurezza sull’intera Striscia, estendendo il dominio militare dal 75% attuale alla totalità del territorio, attraverso un’operazione che dovrebbe durare diversi mesi e comportare lo sfollamento di circa un milione di civili palestinesi entro il 7 ottobre 2025, data simbolicamente scelta per il secondo anniversario dell’attacco di Hamas.
Thank you @SecRubio for your moral clarity pic.twitter.com/dylXwZXp9S
— Israel Foreign Ministry (@IsraelMFA) August 8, 2025
Sebbene Netanyahu abbia chiarito che Israele non intenda mantenere Gaza permanentemente, ma «consegnarlo alle forze arabe che governeranno Gaza correttamente senza minacciarci e dando ai gazawi una vita migliore», il Piano presenta almeno quattro criticità. Innanzitutto parte del piano si rifà alla strategia di Sharon abbandonata nel 2005 proprio a causa della sua inefficacia: nei fatti non riuscì a garantire sicurezza a lungo termine a Israele, ma al contrario, comportò costi elevati in vite umane, profonde divisioni sociali e soprattutto non riuscì a prevenire la vittoria elettorale di Hamas. Contrario al Piano il Capo di Stato Maggiore, preoccupato per l’incolumità degli ultimi ostaggi e perché l’occupazione costringerebbe il Governo militare, seppur temporaneamente, a farsi carico di due milioni di palestinesi ancora residenti nella Striscia.
La presenza di Hamas inoltre esporrebbe le truppe ad una situazione di guerriglia continua. Ma il nodo più problematico è dato dalla mancanza di un piano chiaro e definito per il «dopo». Non è stata prevista né un’amministrazione civile, né un’autorità sostitutiva di Hamas. Quanto agli Stati arabi che dovrebbero garantire la gestione del territorio, Il Cairo ha più volte ribadito la sua contrarietà ad assumere il controllo della Striscia. Quanto agli Emirati e alla Giordania non vogliono essere percepiti come collaborazionisti dell’occupazione israeliana.
Washington spinge per un ritorno dell’Autorità Palestinese, soluzione che il governo israeliano rifiuta. Anche perché il solo uomo che oggi potrebbe avere il carisma per guidare la Palestina verso uno Stato effettivamente nazionale è Marwan Barghouti, detenuto nelle carceri israeliane e che Tel Aviv si rifiuta di liberare. Tutti sembrano aver tratto alcune lezioni dalla Storia, tranne Netanyahu, il cui piano rischia di creare un vuoto di potere e trascinare l’esercito in un’occupazione prolungata e una altrettanto prolungata crisi umanitaria I conflitti in Afghanistan e in Iraq sembrano non aver insegnato nulla.
Michele Brunelli - Docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo
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