Opinioni

Una finanziaria che divide anche su plauso e critiche

Un tempo si diceva che una manovra di Bilancio che provoca proteste generalizzate è una buona manovra: se scontenta un po’ tutti, vuol dire che è equa nel ripartire risorse e sacrifici
La premier Giorgia Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
La premier Giorgia Meloni e il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Un tempo si diceva che una manovra di Bilancio che provoca proteste generalizzate è una buona manovra: se scontenta un po’ tutti, vuol dire che è equa nel ripartire risorse e sacrifici. Succede anche stavolta, con lo sciopero generale della Cgil (ma non di Cisl e Uil) per il 12 dicembre e con il ventaglio di critiche di Banca d’Italia, Istat, Corte dei Conti, Ufficio Parlamentare del Bilancio.

Anche la Confindustria non batte proprio le mani se il suo presidente Orsini va ad incontrare la segretaria del Pd Elly Schlein e insiste con la premier Giorgia Meloni per un grande piano di rilancio industriale da 100 miliardi in tre anni. Curiosamente l’azione del governo è elogiata proprio dai nostri tradizionali e severi critici, gli stranieri. Il Financial Times si spinge a parlare di «Italia modello per l’Europa» con la sua stabilità politica e con la linea di rigore nei conti pubblici; Madame Lagarde annuncia che presto l’Italia potrà uscire dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo essendo ormai rientrata nei parametri sfondati ai tempi del Covid; le agenzie di rating ci promuovono e lo spread non fa più paura, sceso com’è addirittura verso i 70 punti, cioè al di sotto del livello raggiunto dal rigoroso governo Prodi-Ciampi del ’96, quello che riuscì a farci entrare da subito nel club dell’euro.

Insomma, dall’estero ci promuovono mentre l’opinione pubblica interna è combattuta e propende per la critica. Viene dunque spontanea la domanda: qual è il bilancio politico di questa manovra che riduce l’Irpef ma viene accusato di privilegiare «i ricchi»; consente la rottamazione delle cartelle («È l’ultima» dice Giorgetti) ma si sente dire che così «lo Stato finanzia i morosi»; tassa – ma non troppo – le banche e le assicurazioni per non apparire «sovietica», e alleggerisce il fisco sugli aumenti contrattuali?

Sul piano degli equilibri interni alla maggioranza, i partiti hanno trovato un loro compromesso, hanno dei risultati da portare all’elettorato che tra poco andrà a votare in tre grandi regioni italiane, la gara tra la Lega e Forza Italia alla fine è stata composta mentre Meloni può dire che se non ci sono sufficienti risorse è anche per colpa dell’opposizione (Conte) che a suo tempo varò il costosissimo super bonus «con cui abbiamo finanziato la ristrutturazione di ville e castelli». Insomma, il centrodestra riesce, al momento decisivo, dopo tanti dissidi, a presentarsi unito e combattivo.

Viceversa chi si sforza ma non riesce a mobilitare l’opinione pubblica contro il governo «che non aumenta i salari ma la disuguaglianza» è la sinistra che addirittura si sente dire da Romano Prodi che «ha voltato le spalle al Paese» e sembra doversi agganciare alla Cgil e ai suoi scioperi per farsi sentire dagli italiani che la votano e da quelli che se ne sono andati altrove o restano a casa. In fondo, meglio una piazza che il solito talk show dove ti dai ragione da solo.

Il bilancio politico in sostanza è questo: un segnale flebile ad un Paese incerto e preoccupato, sintomo di una politica autoreferenziale che solo relativamente riesce a incidere sui processi reali della società e dell’economia.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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