Dall’Ucraina ai microchip: sale la tensione tra Cina e Nato

All’apertura del summit celebrativo del 75° anniversario della Nato, tre sembravano essere i temi chiave: il primo aveva a che fare con le condizioni di salute del presidente americano Biden - il quale non si è risparmiato qualche imbarazzante lapsus - mentre gli altri due erano relativi alla guerra in Ucraina e alla polveriera mediorientale.
Molto dell’interesse dei 32 membri ha però finito per focalizzarsi sulla Cina, che, nel comunicato finale, in modo inedito, è stata descritta come colei che – in virtù della partnership senza limiti più volte richiamata da Putin e Xi nei loro incontri – ha assunto un ruolo fondamentale nel sostenere lo sforzo bellico di Mosca ai danni dell’Ucraina. L’intrinseco riferimento era al trasferimento da parte di Pechino di beni a «duplice uso», che andrebbe a rinvigorire la macchina da guerra russa.
La dichiarazione della Nato – in cui si avverte Pechino che le sarà impossibile instaurare un rapporto normale con l’Occidente fino a quando sarà complice di «alimentare la guerra in Europa» – ha fatto ricorso a un linguaggio molto più esplicito e pungente di quanto era stato fatto l’anno scorso. In quel caso l’Alleanza si era limitata a intimare alla Cina di sottrarsi a qualunque collaborazione con Mosca. Ciò indicherebbe il crescente consenso maturato sull’asse Stati Uniti-Europa rispetto all’importante ruolo che Pechino avrebbe nel conflitto ucraino e, al contempo, il fallimento del tentativo cinese di incunearsi nel rapporto tra Washington e il vecchio continente al fine di produrre delle incrinature.
Del resto, rispetto al 2014, quando la Cina non rivestiva alcuna centralità nelle deliberazioni della Nato, con l’Alleanza concentrata sulla sua tradizionale missione di salvaguardare l’integrità territoriale di gran parte dell’Europa e di scoraggiare le ambizioni del Cremlino, la situazione è profondamente mutata: l’esplosione della guerra in Ucraina e la natura sempre più globale delle minacce alla sicurezza – con l’Alleanza più preoccupata dalle sfide nel campo della sicurezza informatica e dello spazio – ha infatti catapultato la Cina sotto i riflettori internazionali.

Le accuse mosse dalla Nato sono state immediatamente rispedite al mittente da Pechino: Lin Jian – portavoce del Ministero degli Esteri cinese – che aveva già precisato come la Cina non avesse mai fornito armi alla Russia e che comunque il rapporto commerciale tra i due Paesi non dovesse essere soggetto ad alcuna forma di ricatto esterno, ha sottolineato la faziosità delle denunce, ricordando, anzi, come il ruolo costruttivo di Pechino nella questione ucraina sia stato più volte riconosciuto dalla comunità internazionale.
I cinesi hanno anche accusato la Nato di voler puntellare la propria sicurezza ai danni di altre nazioni, intimando all’Alleanza di non trasferire il «caos» europeo in Asia; tale posizione confermerebbe la ferma determinazione di Pechino a opporsi strenuamente ai legami, sempre più intensi, che si stanno sviluppando tra i membri della Nato e alcuni importanti attori asiatici, come il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e le Filippine. La risposta, come spesso accade, non si è limitata alle dichiarazioni verbali, dato che proprio il giorno prima che si aprisse il summit di Washington, la Cina e la Bielorussia – grande alleato di Mosca – hanno dato inizio alle prime esercitazioni militari congiunte che si stanno attualmente tenendo nei pressi del confine tra Bielorussia e Polonia.
Parallelamente, e come spesso accade in occasione di ogni picco di tensione, Taiwan ha dovuto registrare la più massiccia incursione di velivoli militari cinesi all’interno della propria zona di identificazione. Nonostante l’Occidente continui a sventagliare l’eventualità dell’adozione di sanzioni sempre più aggressive nei confronti delle aziende cinesi sospettate di dare supporto alla Russia, sferrare un colpo fatale all’esportazione cinese di materiali critici verso l’industria della difesa russa potrebbe rivelarsi un compito pressoché impossibile.
Ad oggi, infatti, non è dimostrabile che le aziende cinesi abbiano direttamente fornito armi alla Russia; ciononostante, il commercio complessivo tra i due Paesi è aumentato di quasi 100 miliardi di dollari tra il 2021 e il 2023. Questo porterebbe a ritenere che il timore della Nato relativo all’esportazione cinese di beni «a duplice uso» – come microchip, sensori e radar che possono essere utilizzati nella fabbricazione o messa a punto di materiale bellico – sia assolutamente giustificato.
Negli ultimi due anni, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno sanzionato numerose aziende e individui cinesi per cercare di arginare il flusso di questi beni a duplice uso, e alcuni dati commerciali suggeriscono che questi sforzi stiano avendo un qualche impatto. Nel caso gli Stati Uniti e l’Unione Europea imponessero sanzioni alle banche cinesi e ad altre istituzioni che facilitano questo commercio di beni a duplice uso, ciò potrebbe bloccare ulteriormente il flusso di merci.
Tuttavia, tali sanzioni sono più efficaci nel prendere di mira le transazioni su larga scala, mentre la natura frammentaria delle esportazioni cinesi di tali prodotti complica non poco lo scenario. Oltretutto, temendo sanzioni secondarie, molte aziende russe hanno già spostato le loro transazioni con società cinesi dalle banche cinesi agli intermediari negli Emirati Arabi Uniti o in Kazakistan.
In generale, le aziende cinesi sono obiettivi difficili, in parte perché si trovano ad affrontare prospettive economiche fosche in patria; queste, infatti, potrebbero aver fornito alla Russia un’ancora di salvezza economica, ma la guerra in Ucraina fornisce un’ancora di salvezza a molte piccole e medie imprese cinesi per le quali il disperato bisogno di profitti supera il timore di incorrere in eventuali sanzioni occidentali. E il gioco del gatto col topo rischia di protrarsi ancor a lungo.
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