Cosa ci insegnano le elezioni in Francia e Inghilterra

Noi italiani siamo strenui difensori dell’idea, apparentemente ovvia, che chi ci governa sia in possesso della delega della maggioranza degli elettori. In caso contrario, l’esecutivo sarebbe ostaggio di una minoranza. Oltre ad essere infranto il principio sacro della rappresentatività delle istituzioni, si creerebbero le condizioni – questo il timore nutrito – di una possibile deriva autoritaria. Ci illudiamo che sia la rappresentatività a tutelarci da esiti dittatoriali.
La storia ci insegna invece che il collasso di una democrazia è più facile avvenga per il deficit di governabilità. L’esempio più clamoroso è quello della Repubblica di Weimar. Fu la frammentazione parlamentare e non la presenza di esecutivi retti da minoranze ad aprire la strada a Hitler. Niente da fare. Da noi è invalso il bando dei sistemi maggioritari, accusati di distorcere la volontà popolare. Chi non ha più un’età verde si ricorderà dell’ostilità che incontrò da noi la riforma costituzionale promossa dal generale De Gaulle, nientemeno che il capo storico della Resistenza francese.
Venne salutata dalle nostre vestali della democrazia come fascista, salvo poi difendere presidenzialismo e sistema elettorale maggioritario quando venne eletto presidente il socialista Mitterand. Pesa da noi la memoria del Ventennio, che grazie alla legge maggioritaria Acerbo (assegnava la maggioranza degli eletti al partito o alla coalizione che avesse superato la soglia di 25% dei voti) facilitò la nascita della dittatura.
Sistemi di governo e alleanze
Noi italiani non siamo solo strenui difensori del principio dell’alta rappresentatività delle istituzioni. Siamo anche molto partigiani. Ci ricordiamo di questo principio preferibilmente quando vincono gli avversari. Non è un caso che nelle recenti elezioni tenutesi in Inghilterra e in Francia, che hanno visto il successo della sinistra – travolgente oltre Manica, comunque ampio oltralpe – sia stata la destra, sconfitta, ad avanzare riserve su sistemi elettorali che assegnano la maggioranza degli eletti a chi ottiene molto meno della metà dei voti. Nel Regno unito i laburisti hanno ottenuto il 63% dei deputati con poco più del 30% dei voti. In Francia il Rassemblement National, primo partito nazionale con all’incirca la stessa percentuale s’è visto degradato in parlamento al terzo posto.
Non è finita qui. Noi italiani riteniamo inaccettabile pure che il capo del governo abbia il potere di sciogliere il parlamento, potere che invece sia Sunak che Macron hanno esercitato senza problemi, senza consultare, non diciamo il parlamento, ma nemmeno i vertici dei propri partiti. Fosse successo in Italia, si sarebbe gridato alla deriva autoritaria. In queste due democrazie, inglese e francese, che noi giustamente continuiamo ad invidiare per la loro stabilità e solidità, nessuno ha contestato il verdetto delle urne, nessuno ha avanzato riserve sulla correttezza dello spoglio, nessuno ha minacciato di espatriare, nessuno ha tentato di replicare l’attacco a Capitol Hill. Evidentemente, si tratta di democrazie salde in cui, una volta stabilite le regole del gioco, nessuno ha più da eccepire alcunché se il risultato non è di suo gradimento. Eppure, in Inghilterra vige il sistema uninominale a un turno che assegna la vittoria a chi ottiene più voti, non conta quanti. In Francia l’uninominale a doppio turno rinvia ad una nuova votazione solo i candidati che la prima domenica hanno superato il 12,5%. Può succedere così che, al ballottaggio, non sia eletto proprio il candidato che una settimana prima aveva ottenuto il risultato più forte (il Rf di Le Pen). Sono sistemi elettorali che privilegiano: l’inglese la governabilità, il francese le alleanze, anche a costo di far violenza ai numeri.
Lezioni su cui riflettere
C’è materia su cui riflettere. Prima lezione. Più della bontà (sempre discutibile) delle regole del gioco, contano due fattori: la solidità del patto democratico stretto tra i cittadini e la presenza di una cultura politica democratica sedimentata. Fattori entrambi, che portano ad accettare il verdetto delle urne, a prescindere. Seconda lezione. Non sono di per sé decisivi per il buon funzionamento di una democrazia né una particolare forma di governo (presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato, elezione parlamentare del presidente del consiglio) né uno specifico sistema elettorale (proporzionale, proporzionale corretto dal maggioritario, uninominale secco, uninominale a doppio turno) né l’attribuzione del potere di scioglimento delle camere al capo del governo, ma la felice combinazione di più elementi. Precisamente: una cultura democratica consolidata; un largo consenso a favore delle istituzioni («l’accordo sui fondamenti»); un senso dello Stato superiore al senso di appartenenza ai partiti; un sapiente bilanciamento dei poteri; la presenza di istituzioni di garanzia; stampa e media non asserviti al potere dominante, e altro ancora.
Le forze politiche farebbero bene a trarne lezione dalla bella prova offerta dalle due democrazie in questione. Ridotta all’osso, questa così recita: quando si mette mano alle riforme istituzionali, sarebbe bene guardare all’interesse generale della democrazia e non al particulare del proprio partito. Forse sarebbe anche più facile attuarle. I nostri padri costituenti hanno scritto la Costituzione in nemmeno due anni, noi abbiamo solo scarabocchiato riforme per quaranta.
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