Corte Costituzionale: manca il senso dello Stato

In questo momento l’80% dei giudici di nomina parlamentare non è in carica perché i partiti non si accordano
Il Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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La Corte costituzionale è costretta ad operare avendo il minimo dei giudici (undici su quindici) a causa della mancata elezione di quattro giuristi che sostituiscano i componenti il cui mandato è scaduto nei mesi scorsi. Mentre cinque giudici sono scelti celermente dal Capo dello Stato e cinque dai magistrati (infatti sono fra i dieci su 11 attualmente in carica) altri cinque sono eletti dal Parlamento in seduta comune (ogni candidato deve ottenere almeno i voti dei due terzi dei componenti dell’Assemblea, ma bastano i tre quinti per gli scrutini successivi al terzo). In questo momento, quindi, l’80% (quattro su cinque) dei giudici costituzionali di nomina parlamentare non è in carica perché i partiti non si accordano.

Il quorum è fatto apposta perché non vi siano nomine di parte (nel nostro sistema, fatto di pesi e contrappesi che sono a garanzia delle istituzioni e dei cittadini, non funziona il metodo che chi vince le elezioni prende tutto), dunque maggioranza e opposizione devono trovare un accordo su nomi di assoluto prestigio, degni di entrare a far parte della Consulta. Poi, nella pratica, si spartiscono i posti: pare che nei tentativi d’intesa siano previsti un posto per la destra (Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico della Meloni), uno per il Pd (Massimo Luciani), un secondo nome di maggioranza e un giudice «super partes».

Il problema è che sul secondo candidato di maggioranza e, di conseguenza, sul «super partes» da scegliere l’intesa non c’è. Poiché la logica, almeno finora, è quella del «pacchetto»: si eleggono tutti e quattro i giudici o non se ne elegge nessuno; infatti, si è rinviato ancora, al 30 gennaio. C’è chi indica nelle incertezze di Forza Italia il blocco legato al secondo nome di maggioranza (il prescelto sarà un azzurro, ma ancora non c’è il nome), aggiungendo che la faccenda è legata anche alla nomina di una forzista alla presidenza della Rai (per la quale ci vogliono i voti dell’opposizione, che non arrivano: ecco perché si blocca tutto anche sul giudice «super partes»).

Può darsi che siano voci maliziose, s’intende; fatto sta che la fumata bianca non arriva da troppo tempo. I candidati, oltre ad avere i requisiti stringenti previsti, hanno solo bisogno del placet politico. Non è un problema di scarsità di nomi e nemmeno di poca idoneità al ruolo, ma è solo un «impasse» fra i partiti. Ora, che ci siano trattative sulla Rai, sugli enti pubblici, sulle nomine, può passare; ma sulla Corte costituzionale, in un Paese democratico, maturo e civile, si deve avere rispetto per un appuntamento importante come il rinnovo dei membri della Consulta.

Si parla molto di decisionismo, che si traduce in pratica quando la Legge di bilancio viene esaminata solo da un ramo del Parlamento e votata in poche ore a scatola chiusa dall’altro ramo, oppure quando si dice che bisogna rafforzare la figura del Presidente del Consiglio nel sistema. Però tanta solerzia non si riscontra in casi come questo, a riprova di un generale disprezzo per le istituzioni (la Corte costituzionale; il Parlamento durante la Finanziaria e anche ora che deve votare i giudici ma è ostaggio dei partiti).

Se si vuole cambiare la Costituzione, o «fare la storia» (a destra come a sinistra) si deve prima pensare a rispettare e onorare la Carta fondamentale e le istituzioni della Repubblica. Cosa che non sta accadendo con la vergognosa tarantella di potere sulla scelta dei quattro giudici della Consulta.

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