Caso Turetta, voyeurismo che non giova a nessuno

Il caso della spettacolarizzazione del colloquio in carcere fra Filippo Turetta e i genitori, mandato in onda in tv, si presta a molteplici riflessioni, di vario ordine e genere. Così, mentre viene presentata un’interrogazione parlamentare per sapere chi ha diffuso le dichiarazioni che, partite dalla televisione, hanno fatto il giro del web e dei giornali, si deve provare a distinguere i piani di questa vicenda (bruttissima, da qualunque parte la si guardi).
I fatti risultano, per l’appunto, notissimi. E potrebbero venire qualificati, trattandosi di un colloquio tra un detenuto e la famiglia, nell’ambito della privatezza che dovrebbe contraddistinguere questa fattispecie di evento tanto sotto il profilo dei regolamenti giudiziari e carcerari (e del diritto penale) quanto, in generale, dal punto di vista della conversazione fra individui. L’inserimento di questa «materia» nel circuito mediatico ha prodotto un autentico cortocircuito, con la relativa polarizzazione delle opinioni e il dilagare di un immane big talk collettivo – spessissimo dai toni inappropriati – sui social network.
Effetto, naturalmente, della mediatizzazione delle parole rivolte da Nicola Turetta al figlio, perché i media – come la sociologia della comunicazione e gli studi in materia hanno evidenziato da molto tempo – determinano la costruzione sociale della realtà. E, da parecchio, il redditizio – in termini di audience e, dunque, risorse finanziarie e pubblicità – filone dello «spettacolo del dolore» sollecita il voyeurismo del pubblico, presentando queste immagini e affermazioni rubate come uno scoop, nonché, per giunta, alla stregua di un modo di rendere un servizio di trasparenza e conoscenza sui fatti di cronaca a vantaggio dello spettatore.
Con i contenuti che rimbalzano e si diffondo in maniera crossmediale nell’ecosistema comunicativo ibrido e interrelato che caratterizza la società delle piattaforme, stimolando, difatti, vieppiù quell’opinionismo generalizzato – e sovente non informato – che caratterizza la nostra epoca di soggettivismo assoluto.
Se il dovere del giornalismo – sotto il profilo dell’ideale normativo che ha contraddistinto questa professione – si rivela quello di documentare in maniera (tendenzialmente) obiettiva i fatti, portando all’attenzione dell’opinione pubblica tutto quanto risulta rilevante in termini di newsmaking e agenda setting, ecco qui ci siamo lontani. Mentre siamo – come evidente – dalle parti di uno sguardo (letteralmente) osceno volto a suscitare un interesse e una curiosità morbosi, che non giova a nessuno, ma proprio a nessuno, se non – per l’appunto – all’audience di chi per primo ha diffuso immagini e audio in questa maniera inopinata.
E una riflessione, nondimeno, la richiede anche l’atteggiamento del padre dell’assassino, che continua a rilasciare interviste nelle quali chiede di essere lasciato in pace (un paradosso, in tutta evidenza), dichiarandosi pentito di avere detto quelle che definisce «fesserie», ovvero le sue parole che non possono essere etichettate come giustificazioniste tout court ma, certo, suonano come alquanto «comprensive» e minimaliste. Ovviamente, nessuno intende ergersi in questa sede a «giudice» di genitori che stanno vivendo un dramma di tale portata. Ma l’atteggiamento dei Turetta si inscrive, senza dubbio, in uno dei problemi strutturali di questa nostra società, da cui discendono pratiche e costumi assai problematici.
Sfumare, annacquare, fino a troncare e sopire in maniera generica e indistinta le responsabilità dei figli rappresenta una delle criticità che vive il nostro corpo sociale, e che arriva a varie forme di giustificazionismo che sono, in ogni frangente e in ambiti differenti dall’orrore di cui stiamo parlando, una tara decisamente grave. L’assunzione fino in fondo delle proprie responsabilità è precisamente ciò che rende le persone mature e ne fa uomini e donne a tutti gli effetti, mentre varie generazioni di genitori ostacolano consapevolmente o meno questo processo con le loro forme di «comprensione», che saranno anche nella più parte dei casi motivate da buonissime intenzioni, ma queste, come noto, spesso «lastricano la strada dell’inferno»…
Una forma mentis che aumenta le problematiche sociali in misura esponenziale, e di fronte alla quale risalta, una volta di più, la straordinaria dignità di Gino Cecchettin che ha preferito non commentare questa ennesima pagina dello show del dolore che lo ha investito.
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