Autonomia, i rischi per il referendum

È minacciato principalmente dal quorum, che difficilmente sarà raggiunto
Difficile prevedere grandi affluenze ai seggi - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Difficile prevedere grandi affluenze ai seggi - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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La raccolta di firme per il referendum abrogativo delle norme sull’Autonomia differenziata è stata promossa dai sindacati e da quasi tutte le forze politiche d’opposizione. Sono state inoltre già depositate in Cassazione le firme dei quattro quesiti con i quali la Cgil vuole abrogare la disciplina sui licenziamenti del Jobs act, le norme che hanno liberalizzato i contratti a termine e che limitano la responsabilità solidale negli appalti in caso di incidente.

In teoria, i soggetti favorevoli al «sì» abrogativo dell’Autonomia potrebbero contare sul 45% circa dei voti validi (stando ai dati delle Politiche 2022; il dato non muta sostanzialmente se ci riferiamo alle Europee 2024), quindi già si parte in salita, visto che i «sì» all’abrogazione devono essere almeno pari al 50% più uno dei voti espressi. Ma c’è di più (questo è il vero scoglio): deve andare ai seggi almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto (italiani all’estero compresi), cioè più di 25 milioni di persone.

Se si considera che alle Europee hanno votato 23,4 milioni di persone e che alle politiche sono andati alle urne in 28 milioni (dei quali, però, 12,3 milioni di sostenitori della maggioranza, quindi, teoricamente, dell’Autonomia, che verosimilmente non voterebbero) è facile capire che il referendum non raggiungerà il quorum o per ragioni strutturali (astensionismo cronico) o per la «defezione strategica» di chi vuole mantenere la norma in vigore.

Dal 1974 al 1987, infatti, gli schieramenti opposti (favorevoli e contrari alle leggi sottoposte al giudizio popolare) si affrontarono senza sotterfugi, a viso aperto, con percentuali di affluenza mai inferiori al 65,1% del 1987 (ma col record del 1974, 87,7%, quando gli italiani confermarono la legge sul divorzio). Nel giugno 1990, invece, in occasione dei referendum su caccia e pesticidi, qualcuno scoprì che si poteva sommare l’astensionismo fisiologico (dovuto al non eccessivo interesse del grande pubblico per i temi) all’astensione di chi voleva mantenere la legge. Risultato: 43,4% di affluenza e mancato raggiungimento del quorum di validità (che rese inutile il 92,2% dei voti sì all’abrogazione).

Nel 1991, però, nonostante l’invito di Craxi ad «andare al mare» in occasione del referendum che riduceva a uno i voti di preferenza per l’elezione della Camera dei deputati, andò a votare il 62,2% (il 95,6% optò per il sì: in pratica 59 aventi diritto al voto su cento). Nel 1993 e nel 1995 furono valide altre due tornate referendarie, anche perché l’ondata di cambiamento dei primi anni Novanta passò anche con un rinnovato interesse per questo strumento di democrazia diretta.

Però la festa durò poco: già nel 1997 sei quesiti si fermarono al 30,2% dell’affluenza. Ci fu invece un certo interesse intorno al quesito che, il 18 aprile 1999, avrebbe potuto abrogare la quota proporzionale nell’attribuzione dei seggi della Camera (promosso da Segni e Di Pietro) trasformando il meccanismo nel sistema inglese (in tutti i collegi uninominali il più votato è eletto); sebbene le prime proiezioni (il risultato del voto era scontato: più del 90% di favorevoli) rilevassero che il quorum era stato superato, il voto dall’estero (orientato da sempre verso una bassa affluenza) e l’ambiguità di qualche partito italiano fecero in modo che ci si fermasse al 49,6%, rendendo nulla la consultazione.

Da allora, solo colpi a vuoto: 32% ai referendum del 2000; 25,5% a quelli del 2003; 25,4% a quelli sulla fecondazione assistita del 2005; 23,3% nel 2009 (sulle leggi elettorali). Nel 2011, invece, a sorpresa (e un po’ sfidando Berlusconi, che alla fine di quell’anno perse Palazzo Chigi per non tornarvi mai più) i referendum su acqua, energia nucleare, legittimo impedimento raggiunsero il quorum, col 54,81% di affluenza, con la vittoria dei sì in tutti i quesiti. Fu, però, il canto del cigno dell’istituto referendario: nel 2016 il referendum sulle trivellazioni in mare ebbe solo il 31,2% dei votanti, mentre nel 2022 i quesiti sulla giustizia (fra i quali: separazione delle carriere dei magistrati e abolizione di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza per i politici condannati in via definitiva) furono votati da appena il 20,4% degli italiani.

Paradossalmente, è andata meglio con i referendum costituzionali (che non hanno quorum, però) nei quali si è superato il 50% nel 2006, 2016 e 2020 (ma non nel 2001: ciò nonostante il referendum fu valido). Per far capire quanto sia arduo raggiungere il quorum al referendum abrogativo sull’Autonomia si consideri, oltre a quanto abbiamo già detto in precedenza, che perfino a un referendum senza quorum di validità ma molto appetibile anche per un elettorato disincantato come quello che ha ridotto i parlamentari, nel settembre 2020 ha votato solo il 51,1%.

Certo, si potrebbe votare via internet o per posta, se solo si volesse aumentare l’affluenza anche alle elezioni politiche, europee, amministrative. Ma c’è la volontà politica?

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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