Addio a Bruno Pizzul, timbro e ritmo del periodo d’oro del calcio

Paolo Carelli
Se n’è andato il cantore ufficiale delle partite della nazionale: per molti la sua voce è stata il suono dell’infanzia, per altri quella della maturità, per altri ancora un rituale tramandato
Bruno Pizzul durante una telecronaca - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Bruno Pizzul durante una telecronaca - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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«Ecco Roberto… alto!». Ci aveva abituato, in quei mondiali del ’94, a chiamare per nome i giocatori della nazionale, soprattutto i due Baggio, Dino e Roberto. Era un modo per renderceli famigliari, compagni di strada di quell’avventura, ma sempre con garbato distacco, come un padre buono e severo.

Nel raccontare il rigore decisivo che il divin Codino spedì nel cielo di Pasadena il 17 luglio di quell’anno, c’è tutta la misura dello stile di Bruno Pizzul, la voce storica del calcio italiano, morto all’età di 86 anni. Pizzul è stato il telecronista per eccellenza della nazionale, il timbro e il ritmo di un periodo d’oro del nostro calcio, sempre a un passo dal trionfo che arrivò soltanto quando ormai il microfono era passato ad altri e il pallone, così come il suo racconto televisivo, inevitabilmente cambiato.

Friulano di Cormons, cresciuto giocando a calcio nel campetto dell’oratorio e poi approdato a una discreta carriera da professionista (Catania, Ischia, Udinese), Pizzul entrò in Rai nel 1969 in seguito a un concorso per la sede di Trieste e l’anno successivo effettuò la sua prima telecronaca per una partita di Coppa Italia tra Juventus e Bologna sul campo neutro di Como.

Un amore fulmineo per il racconto in presa diretta dell’evento che ne segnerà l’intero percorso professionale sin dai campionati europei disputati in Belgio nel 1972; la sua voce inconfondibile, il sapiente dosaggio di razionalità ed emotività lo portarono nel 1986 a diventare il cantore ufficiale della nazionale, raccogliendo l’eredità di Nando Martellini e accompagnando gli azzurri fino al 2002. Come Adriano De Zan nel ciclismo, Pizzul è stato uno dei più autorevoli esponenti di quella tradizione di racconto sportivo del servizio pubblico, fatta di sobrietà e semplicità senza mai derogare alla ricerca del vocabolo puntuale, dell’aggettivazione capace di aprire immaginari evocativi; uno stile didascalico-pedagogico volto a educare e intrattenere con leggerezza prima ancora che a spettacolarizzare eccessivamente le azioni e i contesti di gioco.

Tifoso, certo, soprattutto della nazionale, a volte sopraffatto dalla partecipazione e senza riuscire a mascherare l’appartenenza, trascinando milioni di italiani in estasi collettive, come nelle «notti magiche» di Italia ’90, consegnate al mito della cultura sociale e popolare del Paese grazie anche alla sua voce, alle sue urla, al suo incedere in crescendo. Professionista rigoroso, alla diretta Pizzul affiancò anche il lavoro redazionale e informativo classico, non disdegnando commenti e servizi dalle serie minori, applicandosi anche ad altre discipline come la boxe e il canottaggio e conducendo rubriche in studio da protagonista, come Domenica Sprint, o da gregario come in 90° minuto.

Testimone, suo malgrado, della più grande tragedia del calcio italiano ed europeo, quella dell’Heysel durante la finale di Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool del 29 maggio 1985; di quella maledetta serata rimangono non solo le immagini della violenza e dell’angoscia, ma anche il suo racconto strozzato, la descrizione surreale di un dramma che riuscì, ancora una volta, a sintetizzare con una lucidità e un’empatia disarmanti: «C’è soltanto sgomento e vedo anche gente piangere».

Agli atti rimane anche la sua ferma condanna della scelta dell’Uefa di continuare lo spettacolo mentre si spargeva la notizia dei 39 morti: «Un’altra notizia che mi lascia a dir poco sconcertato è che la partita si giocherà». La commentò con garbo e dolore, portando e interpretando il sentimento di incredulità degli italiani.

Per molti, la voce di Pizzul è stata il suono dell’infanzia, per altri quella della maturità, per altri ancora un rituale tramandato e da riscoprire negli archivi. La voce di vittorie mancate per un soffio, di estati indimenticabili e delusioni innocenti. E al di là dei risultati, possiamo dirlo come lo avrebbe detto lui: «È stato tutto molto bello».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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