A chi giova sabotare la tregua a Gaza

I colloqui per il cessate-il-fuoco falliscono anche a causa delle élites al potere, che analizzano vantaggi e svantaggi pensando principalmente alla loro sopravvivenza politica
L'operazione militare israeliana a Deir Al Balah, nella Striscia di Gaza, il 25 August 2024 - Foto Ansa/Mohammed Saber © www.giornaledibrescia.it
L'operazione militare israeliana a Deir Al Balah, nella Striscia di Gaza, il 25 August 2024 - Foto Ansa/Mohammed Saber © www.giornaledibrescia.it
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Tregua: cui prodest?

Nell’intricata situazione geopolitica odierna si assiste sempre più a un profondo scollamento tra l’interesse nazionale e quello del popolo. Soprattutto in tempi di guerra, quando lo Stato, ma anche quegli attori non statuali che propagandisticamente si ergono a numi tutelari dei diritti delle loro comunità, abdicano al dovere di provvedere al benessere dei propri concittadini perseguendo, in nome della Realpolitik, gli interessi delle élites al potere.

In quasi un anno di conflitto molti sono stati i colloqui che hanno cercato di stabilire un cessate-il-fuoco quale preludio per una tregua da parte di delegazioni di Stati non direttamente coinvolti nelle operazioni belliche, ma i cui interessi sono legati ai contendenti o trarrebbero beneficio da una stabilizzazione dell’area, senza tuttavia riuscirci.

Le cause di questo fallimento sono imputabili a una strategia consolidata per fare fallire i negoziati, messa in atto sulla base di una spietata analisi costi/benefici per le élites dei contendenti diretti, che purtroppo fa sì che nella guerra trovino vantaggi superiori a quelli della pace: la loro sopravvivenza politica.

Se in Israele il percorso politico di Netanyahu è ormai drammaticamente considerato concluso, Hamas e il suo alleato principale nell’area Hezbollah, due delle maglie fondamentali della «catena di resistenza» contro Israele, guidata da Teheran, vedono nel prosieguo delle ostilità uno strumento per mantenersi al potere.

Pensando auspicabilmente il prima possibile a una cessazione totale della guerra, la ricostruzione strutturale della Striscia di Gaza, stimata ad oggi in 80 miliardi di dollari, si compirà verosimilmente per volontà internazionale senza alcun ruolo per Hamas, considerato in Occidente un gruppo terroristico e mal visto dai potenziali donatori arabi, in primis Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, questi ultimi firmatari degli Accordi di Abramo con Israele.

Nella Gaza di domani non vi sarà parte alcuna per Yahya Sinwar, mente criminale degli attacchi del 7 ottobre e oggi, oltre che capo militare, anche guida dell’ala politica dopo l’assassinio di Haniyeh. Sarà invece sempre più probabile un ruolo per Fatah e i suoi membri: non a caso di recente è riapparso il nome di Barghouti, leader delle due Intifada, detenuto in Israele dal 2002 e possibile oggetto di scambio tra prigionieri e che da sempre gode della stima della popolazione palestinese, a differenza di molti degli attuali leader di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese, giudicata corrotta e talvolta collusa con Israele.

Inoltre il Segretario di Stato USA Blinken in più occasioni è stato chiaro nel ribadire che ogni piano per il futuro della Striscia dovrà includere un governo guidato dai palestinesi e Gaza unificata con la Cisgiordania sotto l’Autorità Nazionale, per raggiungere infine uno Stato.

Nessun posto per Hamas dunque. Hezbollah invece, oltre che fungere da Stato in uno Stato e un Governo nazionale ormai istituzionalmente inesistenti, trae anche la propria forza coesiva dal suo confronto con Israele. Già nel 2006 il ritiro israeliano dal Libano fu presentato dal Partito di Dio come una schiacciante vittoria contro l’odiato nemico, aumentando a dismisura il suo potere anche in termini di attrattività di uomini e di donazioni.

Il prosieguo della guerra a fianco di Hamas, e l’operazione di ieri contro Israele volta a boicottare i negoziati per la tregua ne è una chiara dimostrazione, è funzionale al gruppo sciita per continuare a giocare un ruolo fondamentale nell’area e ad essere finanziato e rifornito di armi dall’Iran.

Oggi più che mai, con un Presidente riformista alla guida dell’esecutivo del paese. I timori principali di Hezbollah verso Pezeshkian è che si possa ripetere il tentativo di conciliazione con Washington messo in atto nel 2002 dall’allora presidente, anch’esso riformista, Mohammad Khatami, di cui Pezeshkian fu membro del suo Gabinetto, quando fece trasparire l’idea di voler interrompere gli aiuti economici a Hezbollah per evitare che Teheran fosse incluso nel cosiddetto «Asse del Male», elaborato da George Bush, poiché ciò avrebbe potuto portare a un’aggressione militare statunitense. Il mancato appoggio iraniano avrebbe messo a rischio tutto il sistema di welfare creato dal Partito in Libano, con la conseguente perdita di controllo sul territorio.

Ecco dunque che ogni qual volta traspaia l’opportunità di giungere a una tregua, una non celata strategia del boicottaggio, condotta attraverso attacchi terroristici o vere e proprie azioni belliche, come il lancio di missili, comprometta gli esiti del dialogo. La responsabilità di governo, anche da parte di sedicenti attori non statuali, come Hezbollah o Hamas, richiederebbe innanzitutto non la sopravvivenza delle élites al potere, bensì la tutela e il benessere della propria popolazione. Uno dei pilastri della Democrazia e del Buon Governo.

Michele Brunelli, Docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo

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