Italia e Estero

Fase 2, priorità scovare casi sospetti: «Servono test in aziende»

Ruolo cruciale per i medici del lavoro che però avvertono: «Al momento non sono consentiti test e tamponi a lavoratori nelle aziende»
Un operaio al lavoro con mascherina (archivio) - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Un operaio al lavoro con mascherina (archivio) - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
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Identificare immediatamente i casi sospetti di Covid-19 e procedere al loro isolamento, tracciando anche i contatti. È questa una delle priorità per la Fase 2, per evitare nuovi possibili focolai con la riapertura di molte aziende e la ripresa di varia attività lavorative. Un ruolo cruciale lo avranno dunque i medici del lavoro, che dovranno monitorare sulla sicurezza dei lavoratori. Ma la fase 2, avvertono, «parte a rischio perché un monitoraggio effettivo è possibile solo effettuando test e tamponi ai lavoratori nelle aziende, cosa al momento non consentita».

In questo momento di riapertura «è fondamentale essere in grado di eseguire immediatamente tamponi nei casi sospetti e provvedere immediatamente al tracciamento e all'isolamento, non domiciliare, dei contatti», afferma il virologo dell'ospedale San Raffaele di Milano Roberto Burioni. Questi, avverte, sono gli «elementi cruciali per evitare una ripresa del contagio». Anche il direttore del dipartimento Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza, ammette una «certa preoccupazione perché - spiega all'Ansa - ogni volta che si ha una riapertura un minimo di rischio in più c'è. Finora siamo stati sotto una campana di vetro, quindi ora è necessaria la massima attenzione». Ciò significa che «bisogna essere pronti ad identificare subito i casi sul territorio e sono favorevole ad estendere i tamponi ai contatti dei soggetti positivi». Oggi, sottolinea, «abbiamo aumentato il numero delle terapie intensive ma l'obiettivo è quello di non riempirle di nuovo. Per questo vanno subito bloccati eventuali focolai». 

In particolare, nelle aziende, afferma Rezza, «è fondamentale il distanziamento». Una misura, quest'ultima, non sempre però applicabile, e dunque insufficiente, secondo i medici del lavoro. Il punto è che «non abbiamo strumenti reali perché non possiamo prescrivere ai lavoratori nè i test sierologici nè i tamponi - afferma Giuliano Pesel, responsabile del servizio Medicina del lavoro al Policlinico Triestino Spa e medico competente in alcune aziende multinazionali - ma per garantire la sicurezza è necessario poter effettuare un monitoraggio sullo stato immunitario effettivo dei lavoratori proprio attraverso tali esami, altrimenti il rischio di nuovi focolai è più probabile».

Si crea inoltre una condizione «paradossale: molte multinazionali, ad esempio nel settore gas, o compagnie di navigazione, stanno richiedendo il tampone ai lavoratori. Questi non possono però effettuarlo nella sanità pubblica, che lo prevede solo per i sintomatici, e le aziende si rivolgono ai medici competenti. Noi non possiamo che indirizzare a laboratori privati, o in vari casi il lavoratore della multinazionale deve effettuarlo all'estero». Il Servizio sanitario, rileva, «vuole mantenere il monopolio nella gestione di tali test ma poi non riesce a garantire il servizio. Forse, si teme un eccesso di diagnosi positive che sarebbe poi molto difficile da gestire».

Intanto, la Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) lancia l'allarme per le categorie di lavoratori «a rischio»: «È troppo presto per pensare a un ritorno in servizio dei lavoratori più fragili. Immunodepressi, con patologie croniche invalidanti, persone sottoposte a terapie salvavita sono più suscettibili al Covid-19», afferma il presidente Filippo Anelli. Da qui la richiesta al governo di un provvedimento per prorogare il termine della norma, scaduto il 30 aprile, che prevedeva la possibilità per tali categorie di astenersi dal servizio.

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