Italia e Estero

La stampa si fa «spot» al Super Bowl

Se è vero che la democrazia muore nelle tenebre, allora la libertà di stampa ha bisogno di nuova luce
Lo spot del Washington Post
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Se è vero che la democrazia muore nelle tenebre, allora la libertà di stampa ha bisogno di nuova luce. È questo l’assunto che deve aver mosso quelli del Washington Post, analizzando e andando oltre lo slogan stesso del giornale: «Democracy Dies in Darkness».

E allora quali migliori riflettori se non quelli del Super Bowl, l’evento sportivo per eccellenza negli States la cui portata culturale fatichiamo a comprendere al di qua dell’Oceano? Da Atlanta parte uno spot e corre sulle frequenze di tutto il mondo. Urla, sciarpe, t-shirt, pop-corn, patatine e burger, i Los Angeles Rams e i New England Patriots. La finale delle finali con 70 mila americani in visibilio.

Eppure un minuto e 10 secondi irrompono con prepotenza nel delirio dello stadio di football. La Seconda Guerra Mondiale, le lotte per i diritti civili, lo sbarco sulla Luna e poi l’11 settembre, l’Afghanistan, la Siria: sulle parole di Tom Hanks si susseguono una sequenza di immagini a turno forti, emozionanti, atroci. Atroci come quelle di Austin Tice, Marie Colvin e Jamal Khashoggi, giornalisti catturati e uccisi in giro per il mondo mentre facevano il loro lavoro: dare notizie.

E farlo in un momento storico in cui il giornalismo vive una crisi, accerchiato da politica, terrorismo e da una redifinizione dei rapporti con l’opinione pubblica. Ma anche questo è il segno dei tempi: da contenitore di pubblicità, la stampa si trasforma in pubblicità stessa, incarnandosi in un messaggio da 5,25 milioni di dollari che raggiunge 120 milioni di persone solo negli Usa. Forse la nuova reputazione del giornalismo riparte anche da qui. Tra una meta e l’altra.

 

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