Social media: la fonte d’informazione preferita dai giovani e non solo

Chi l’avrebbe mai detto, nei lontani anni 2000 in cui ci si accingeva con timidezza alla condivisione delle proprie vite su portali come Facebook, che i social media avrebbero ricoperto in modo totalizzante ogni aspetto delle nostre vite? Dalle vacanze al lavoro, dagli hobby personali alle uscite il sabato sera, da fotografie buffe a impegnate riflessioni personali, queste piattaforme online sono ormai diventate il filtro di tutti gli eventi che, in un modo o nell'altro, influenzano la nostra esistenza.
Non a caso, neppure il mondo dell'informazione fa eccezione a queste nuove tendenze: da quanto si evince dal sondaggio «Il futuro come te lo immagini» somministrato dall’Hub della Conoscenza ai molteplici visitatori del Futura Expo, evento tenutosi presso il Brixia Forum di Brescia fra il 7 e il 9 marzo 2025, sembra esserci stato un significativo passaggio di torcia anche nell’ambito giornalistico.
Preferenze
Infatti, in merito alla voce «Dove prendi principalmente le tue informazioni?», domanda fra l’altro pressoché inequivocabile, il 34% degli intervistati ha fornito una risposta più che perentoria: i social media. Al secondo posto i siti web e i blog (22%) per poi finire con il gradino più basso del podio occupato dai più tradizionali giornali e riviste (15%), di poco preferiti rispetto a tv e radio, anch’essi in declino col 12%, passando infine ad approcci all’attualità nettamente più alternativi come l’antiquato passaparola (8%), gli innovativi podcast (3%) e lo spaventosamente preoccupante rifiuto di attingere a una qualsivoglia fonte di notizie, dato che accomuna addirittura il 4% dei votanti.
A prova dell’incontrovertibilità dell’esito sopra riportato e anzi, della sua imminente crescita esponenziale, c’è il fatto che la stragrande maggioranza di quel 34% risulta essere di età inferiore rispetto ai 35 anni e comprende inoltre non pochi minorenni.
Insomma, siamo di fronte a un cambiamento radicale del modo di fruire le notizie quotidiane, il che comporta alcuni vantaggi ma altrettanti rischi. Di conseguenza, com’è più che ragionevole fare di fronte a ogni rivoluzione, informarci preventivamente ci permetterà di accogliere quest'ondata di cambiamenti con la dovuta cautela. Vale allora la pena ascoltare l’opinione di chi, sui social media, ci lavora, come Fabrizio Betone Martire, social media manager bresciano a capo dell'agenzia Gummy Industries.
Signor Martire, la figura del social media manager sta entrando in modo sempre più prorompente nel mondo della comunicazione, ma non suona poi così familiare a molti componenti delle generazioni più attardate: giusto per chiarire ogni dubbio, in cosa consiste una suo giornata di lavoro? E, a tal proposito, quali sono le qualità fondamentali per entrare in un mondo come il suo?
Negli ultimi mesi – se non anni – la figura del social media manager non sta entrando, ma semmai uscendo dalle attività di comunicazione delle aziende. Questo perché la comunicazione è profondamente cambiata, e questa figura viene oggi spesso supportata – se non addirittura sostituita, in realtà più piccole – dall’intelligenza artificiale. Anche la gestione dei social network si è trasformata: oggi sono molto più orientati al video e basati su contenuti effimeri, come accade su TikTok e Instagram Reels. Il social media manager contemporaneo è quindi sempre meno un pianificatore strategico e sempre più un facilitatore operativo: aiuta a girare video, montarli, pubblicarli. Potremmo dire che si sta trasformando in una figura quasi di assistente creativo.
Quali sono allora le qualità fondamentali?
Innanzitutto, leggere il giornale ogni mattina: sapere cosa accade nel mondo è indispensabile. Poi serve empatia, la capacità di comprendere le persone e i contesti. Bisogna conoscere a fondo il prodotto o servizio per cui si lavora e avere anche una certa dose di forza interiore – la forza di rompere la routine, superare lo status quo e creare contenuti nuovi, originali, capaci di bucare la bolla e attirare l’attenzione nel flusso.
Quali sono i vantaggi che spingono un'azienda ad affidarsi alla sua agenzia, piuttosto che a un metodo di marketing molto più tradizionale?
I clienti si affidano a Gummy Industries perché solitamente sono organizzazioni strutturate, che stanno costruendo la propria marca, il proprio servizio o prodotto, e hanno quindi bisogno di gestire in modo coerente e strategico tutte le relazioni comunicative con i diversi interlocutori. Il nostro ruolo è quello di affiancarli in questo processo, creando senso, visibilità e coerenza nel tempo. Parlare oggi di marketing «tradizionale» o «digitale» ha forse sempre meno senso: non esistono strumenti migliori di altri in assoluto. Comunicare bene significa progettare una strategia efficace e scegliere i canali più adatti in base agli obiettivi e alle caratteristiche del prodotto o servizio. Noi utilizziamo principalmente strumenti digitali, ma negli anni abbiamo sviluppato anche competenze su media tradizionali come TV, radio e stampa. La comunicazione efficace non è questione di mezzi, ma di visione.
Ultimamente anche istituzioni vere e proprie come la città di Brescia e la Banca Valsabbina si sono avvalse del suo servizio: come si può coniugare la formalità che le contraddistingue alla necessità di produrre un contenuto accattivante?
L’istituzionalità è una cosa, la percezione pubblica è un’altra. Il modo in cui un’organizzazione viene percepita dai propri interlocutori dipende da come comunica. È possibile mantenere un posizionamento serio e autorevole, pur adottando linguaggi capaci di creare relazione e memorabilità. Con realtà come la città di Brescia o Banca Valsabbina, il nostro lavoro è stato proprio quello di progettare una strategia di comunicazione che rispettasse l’identità istituzionale, ma che al tempo stesso permettesse di parlare alle persone con efficacia. Lavorare bene sul piano strategico consente anche a marchi istituzionali di essere memorabili senza perdere credibilità. L’equilibrio si trova nel tono, nella coerenza e nella capacità di non confondere serietà con rigidità o noia.
Tornando all'argomento di questo articolo, un sondaggio condotto dall'Hub della Conoscenza ha messo in luce il fatto che buona parte dei giovani si mantiene informato sui temi d'attualità proprio tramite i social media: secondo lei quali sono le cause di questo fenomeno?
È evidente che una larga parte dell’informazione quotidiana oggi passa attraverso i social media, non solo per la generazione Z o i millennial, ma anche per fasce d’età più ampie. Probabilmente solo i baby boomers (nati dal 1946 al 1963) continuano a informarsi principalmente attraverso giornali e media tradizionali. Questo fenomeno è nato perché alcuni soggetti hanno capito molto prima dei media tradizionali come utilizzare i social per informare. Hanno creato canali rapidi, coinvolgenti, riconoscibili. Ma questo comporta anche dei rischi. Molte pagine nate come account meme sono diventate canali di informazione alternativa, a volte faziosa o parziale. Alcune si concentrano su fenomeni negativi, come la microcriminalità o gli incidenti, creando narrazioni distorte. Il problema è che spesso queste pagine vengono percepite come vere fonti giornalistiche, pur non rispettando alcuno standard deontologico.
Ritiene che i social media siano già considerabili una fonte d’informazione sicura e affidabile, oppure che il nostro completo affidamento al mondo dell'internet sia eccessivamente prematuro?
Questo porta a una questione cruciale: la distinzione tra contenuto e fonte. I social media non sono una fonte autorevole in sé: sono una piattaforma. Al loro interno si trovano contenuti giornalistici validissimi e altri pericolosamente manipolatori. Il punto è che molti utenti non distinguono tra una testata giornalistica con una linea editoriale dichiarata e un account gestito da una persona qualunque. In questo contesto, la responsabilità è doppia: da un lato dei giornali, che spesso non sono riusciti a presidiare i canali digitali con la stessa forza con cui li presidiano altri soggetti. Dall’altro, degli utenti, che devono sviluppare senso critico. La mancanza di consapevolezza ha reso l’informazione «alternativa» un sostituto – non sempre affidabile – di quella professionale.
A tal proposito, come si induce una persona qualsiasi, intenta a «scrollare» sul telefono districandosi fra una pagina social e l’altra, a ritenere il profilo di un'azienda credibile e a suscitare interesse verso quest'ultimo?
Quando una persona scrolla sul telefono, si ferma su un contenuto per due motivi principali: perché risponde ai suoi interessi e perché è stato costruito in modo interessante. Ma questo non ha nulla a che fare, in senso stretto, con la credibilità di un’azienda. Un’azienda è credibile non perché è presente sui social o perché pubblica buoni contenuti, ma perché ha costruito nel tempo un marchio forte. La credibilità si fonda su anni di scelte strategiche: di prodotto, di mercato, di posizionamento e soprattutto di coerenza valoriale. È chiaro che la capacità di comunicare questi valori sui social può fare la differenza in termini di visibilità e rilevanza, ma un brand può essere credibile anche senza eccellere nella comunicazione digitale. Basta pensare ad Apple: non usa i social in modo diretto e continuo, eppure è uno dei marchi più potenti al mondo. In breve: la comunicazione può amplificare la credibilità, ma non la crea. La credibilità di una marca nasce altrove – nelle scelte e nei comportamenti – e solo dopo può essere raccontata con efficacia.
Di recente il celebre divulgatore scientifico Neil DeGrasse Tyson ha affermato: «l’intelligenza artificiale ucciderà l’internet, perché, quando questa diventerà ancora più precisa nel creare video falsi, perfino le persone che credono alle “fake news” non ci crederanno più, in quanto il rischio di imbattersi in una “fake news” sarà così alto da far perdere all'internet la sua integrità». Come ribatte a questa affermazione altisonante?
Non sono d’accordo con l’affermazione di Tyson, o meglio: la considero fin troppo ottimista. In effetti, è vero che l’intelligenza artificiale renderà le fake news sempre più indistinguibili dalle notizie vere. Ma questo sta già accadendo ora, e il problema non è tanto la qualità della manipolazione, quanto il fatto che molte persone accettano consapevolmente la falsità. Anche quando una fake news viene smascherata, c’è chi continua a difenderla, attribuendole un valore simbolico o «emotivo»: il fatto che quella notizia sia falsa non conta, perché rappresenta comunque un malessere percepito – sociale, economico, culturale.
Siamo in piena era della post-verità: la veridicità delle informazioni passa in secondo piano rispetto alla loro capacità di generare consenso o appartenenza. In questo senso, lo scenario immaginato da Tyson – in cui le persone abbandonano internet perché le fake news diventano troppo pervasive – sarebbe persino auspicabile, perché significherebbe un risveglio collettivo. Invece, ciò che osservo è un’accettazione crescente delle distorsioni, alimentata da echo chambers digitali che offrono conferme emotive più potenti della realtà stessa.
Questo non è un fenomeno locale o legato a un’unica cultura: lo vediamo in ogni parte del mondo, con una polarizzazione crescente del pensiero e una radicalizzazione dei comportamenti. Non ci stiamo allontanando dalle fake news: le stiamo integrando nel nostro modo di credere e decidere. Ed è proprio questo il vero rischio per l’integrità dell’informazione e della convivenza civile.
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