L’Europa deve restare verde

Prima di tutto un chiarimento: in questo breve commento che si concentra sulle scelte economiche europee non si entrerà nelle vicende partitiche in vista delle elezioni dell’8 e 9 giugno.
Non parlare di politica invece sarà impossibile, visto che la vita di società, imprese, istituzioni e cittadini europei è implicitamente interessate ogni qual volta si parla di Bruxelles.
Fatta questa premessa il primo appunto: l’Europa ha abbassato il tiro in ottica di transizione sostenibile. Lo dimostrano tutte le recenti normative - dagli imballaggi alle «case green» fino al testo sugli Euro7 - lanciate dalla Commissione von der Leyen come una trasformazione radicale e andate via via a perdere buona parte della loro «radicalità» lungo l’iter legislativo. Normale certo, l’Europa lavora secondo un meccanismo equilibrato tra esecutivo, Consiglio e Parlamento.
Appare però parimente chiaro come la Commissione, formatasi a seguito della famosa «maggioranza Ursula» tra Ppe, S&D e Liberali, sia dovuta scendere a patti con un tessuto dove le misure del Green Deal non hanno fatto presa. Da molti, e le recenti proteste degli agricoltori lo dimostrano, sono state infatti viste come un’imposizione calata dall’alto, che rispondevano più agli interessi di pochi Paesi.
Ecco perché anche l’addio di Frans Timmermans, paladino del Green Deal, alla poltrona di vicepresidente è stato il primo evidente segnale di un cambio di rotta del governo comunitario, preoccupato anche dall’emergere di forze conservatrici, per non dire reazionarie, in tutto il continente. E la prima politica a fare le spese di questa inversione di rotta è stata quella ambientale.
Certamente una rimodulazione di certi dettami, che avrebbero e potrebbero scardinare l’attuale industria europea (Italia e Brescia ne sanno qualcosa), non è un male. L’obiettivo della transizione green deve però rimanere un punto di riferimento, che non deve piegarsi a ricatti o paure.
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