Cultura

Vita, morte e libertà: «L’Odissea di Kazantzakis» ora è un romanzo

Il giornalista e storico Giacomo Scanzi in questa riscrittura in prosa ha riplasmato il caposaldo dell’epos omerico steso tra il 1925 e il 1938 da «Zorba il Greco»
Giacomo Scanzi con una copia di L'Odissea di Kazantzakis
Giacomo Scanzi con una copia di L'Odissea di Kazantzakis
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Un caposaldo dell’epos omerico riplasmato. In un poema ciclopico – 24 canti e 33.333 versi (più di Iliade e Odissea insieme) – e attraverso un ribaltamento assoluto della prospettiva con cui il protagonista, Ulisse, guarda al suo, al nostro mondo.

L’«Odissea» è l’opera della vita di Nikos Kazantzakis, noto ai più per «Zorba il Greco», in realtà autore prolifico e poliedrico intellettuale, traduttore fra l’altro in greco della Divina Commedia (dell’Ulisse dantesco - canto XXVI dell’Inferno - quello del cretese è del resto in parte debitore). Alla stesura del poema Kazantzakis dedicò 13 anni, dal 1925 al 1938. Pur essendo un capolavoro del ‘900, è stato tradotto in italiano solo nel 2020 da Nicola Crocetti. Nell’ideale prosecuzione fantastica della storia di Ulisse, l’eroe, inquieto e insofferente, riparte da Itaca per un nuovo viaggio: da Sparta a Creta e Tebe, lungo il Nilo, e ancora più a sud, alla ricerca della libertà assoluta per l’uomo, da schiavitù e tirannidi, dal destino stesso.

Nikos Kazantzakis, originario di Creta
Nikos Kazantzakis, originario di Creta

A un secolo dall’ideazione del poema, Giacomo Scanzi, giornalista, storico e già direttore del GdB, attraverso una riscrittura durata quasi tre anni, ne propone una versione in prosa (e come tale accessibile a una platea meno avvezza al verso), rielaborata con un linguaggio più diretto, spesso provocatorio, consegnando ai tipi della Marcianum Press un romanzo (880 pagine, 26 euro nelle librerie da domani) che, fedele al testo autoriale, ne accentua l’assoluta attualità.

Per parlare di quel «viaggio attraverso il tempo dissennato» di Ulisse, come lo definisce nella prefazione il cantautore Massimo Bubola, che è in realtà il nostro tempo, in cui – per dirla con il collega Enrico Mirani nella postfazione – «la libertà, con la sua via piena di fatiche e incertezze, sembra interessare a pochi».

Come nasce l’idea del romanzo dell’Odissea?

«Nasce da un dono. Un amico me ne ha parlato e leggendola ho capito che quella era la mia storia. La storia della fine. Della sua percezione. E del cammino necessario affinché abbia un senso. La fine comporta tre cose: un grande senso di libertà, una grande voglia di mandare al diavolo il mondo – l’invettiva è centrale in Kazantzakis – e la necessità di conoscere e guardare negli occhi la morte, l’approdo. Ulisse compie un viaggio di sola andata. E in esso rivive tutte le grandezze e le nefandezze della sua vita, le chiama per nome. Incontra personaggi, vede il futuro, si ancora al passato, se ne infischia del presente. Ogni cosa è funzionale alla sua morte: la sua morte è la morte del mondo. Ho voluto mettere in luce da un lato il rapporto con Dio, che è relazione tragica, rapporto problematico, blasfemo, laddove la bestemmia, a suo modo, è una preghiera; dall’altra l’eros, pre-morale, pre-cristiano, in cui il rapporto con la donna è così radicale da essere persino pre-animalesco. Nell’eros c’è tutta la pietà di Ulisse per la donna, che nell’amore fisico scopre la propria intima vocazione. Concetto che suona del tutto politicamente scorretto e antimoderno».

Il luogo della sepoltura di Nikos Kazantzakis: "Non spero nulla, non temo nulla, sono libero", recita la lapide
Il luogo della sepoltura di Nikos Kazantzakis: "Non spero nulla, non temo nulla, sono libero", recita la lapide

La morte è un tema spesso ostracizzato al nostro tempo, non così per Ulisse.

«La morte è una compagna che si innesta in noi nel giorno della nostra nascita. La sfida è camminarle sette passi avanti. La fine è parte del tragitto, è l’epopea della fine. Ulisse trascina tutto con sé nel momento della morte. Nulla ha più senso. “Fine” è una parola che noi abbiamo espunto dalla nostra esperienza. Eppure è tremendamente legata alla parola “inizio”. Di mezzo vi è tutta la forza di una vita, in sostanza inutile alla luce del suo dissolversi. In quest’ottica perdono significato persino Penelope e Telemaco. Solo in una società emotiva come la nostra non si comprende come un uomo possa abbandonare moglie e figlio per cercare un destino più alto».

Cosa ha da dire l’Ulisse di Kazantzakis all’uomo del nostro tempo?

«Accontentati dei viaggi, dei piatti, dei materassi, dei selfie, dei “mi piace”, della tua automobile. Altro non sei che la futura pista da ballo dei vermi».

A chi si rivolge questa trasposizione in romanzo?

«L'ho scritta per me e per tutti coloro che come me desiderano guardare in faccia la Fine, raccontarla e perfino mandarla a quel paese. È quella di Kazantzakis un’invettiva. L’ho fatta mia e la propongo a tutti coloro che non si riconoscono nel “politicamente corretto”, nel “mainstream”, nell’”assolutamente sì”. È questa una dimensione che un tempo era popolare, trasparente, arditamente ricca di invettive e priva di violenza. Noi abbiamo coltivato un linguaggio melenso e lasciato spazio alla violenza fisica. Il linguaggio è un grande palliativo, un autoritratto della violenza, specie se l’invettiva è ironica. Da ultimo, ho voluto trasferire tutto ai giorni nostri. Le società che Ulisse incontra sono la nostra. Tanto che quando Ulisse compare in una grotta vestito da Dio immagino i giovani farglisi attorno per scattarsi un selfie» (così nel testo, ndr).

C’è una fortissima dimensione spirituale che anche il romanzo esalta.

«Ulisse ha pietà di Dio. Ha di fronte questa realtà che gli si presenta in mille forme diverse. Come buffone, come marionetta… E in fondo gli dice: “Ma tu chi sei?”. Vorrebbe aiutare Dio, salvarlo dall’uomo. “Tu hai creato degli imbecilli - gli dice - e hai dato loro la libertà, negandoti l’unica possibilità di addomesticarli”. L’Ulisse di Kazantzakis ha pietà per l’uomo che si innamora di Dio. E al contempo ha pietà per un’umanità incapace di guardare Dio negli occhi. Che preferisce la schiavitù alla libertà totale. Ulisse ama l’umanità che gli fa schifo. È la sua doppiezza».

Cosa lasciano questi tre anni di lavoro?

«Mi lasciano tra le mani un grande setaccio che ha trattenuto l’essenziale sia nei rapporti che nei valori. Mi lascia la compagnia di un uomo libero, che ha condiviso le mie ore di silenzio, di lettura, di percezione della magnifica grandezza dell’umanità».

Kazantzakis sta vivendo una sostanziale riscoperta. Perchè proprio ora?

«Kazantzakis vive il dramma di essere di moda. Credo sia preferibile il Kazantzakis reietto e ostracizzato (Chiesa ortodossa e establishment greco gli impedirono premio Nobel e sepoltura in terra consacrata, ndr) a un Kazantzakis di cui parlano i salotti. Certo è che questo tempo a molti non piace, per cui si cercano traiettorie alternative. E Kazantzakis offre una possibilità di “mondo altro” e ancore di salvezza. Una su tutte: la vita ha senso se la si vive all’ombra di uno più grande di te. Chi riconosce i giganti è di per sé un gigante».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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