Cultura

«Tex Willer: eroe cocciuto di un’Italia che vuole ricominciare»

Parla la professoressa Elizabeth Leake, autrice di un saggio sul cowboy dei fumetti
Il tratto distintivo. Il cappello di Tex Willer in un dettaglio della copertina del libro
Il tratto distintivo. Il cappello di Tex Willer in un dettaglio della copertina del libro
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L’essere un cavaliere solitario, coraggioso e imbattibile, sempre pronto a difendere i più deboli. È il tratto distintivo di Tex Willer, l’eroe di un fumetto che incarna un ideale collettivo, assorbendo molte delusioni nazionali e riproiettandone i valori in un contesto dottrinale eroico: «Più che un ideale, Tex ha incarnato un anelito, un desiderio» afferma la professoressa Elizabeth Leake, autrice del saggio «Tex Willer - Un cowboy nell’Italia del dopoguerra» (Il Mulino, 190 pagine, 14 euro).

La docente, che insegna al Dipartimento di italiano della Columbia University, New York, si occupa anche di narrativa e teatro del Novecento, storia culturale del fascismo, nonché di storia e critica del cinema italiano ed europeo.

Precisa: «Nella mitizzazione del personaggio c’è il desiderio di lasciarci il passato alle spalle, ripartire da un mondo e da un immaginario vergini, per ricostruire una società su un mito necessariamente vago, e forse anche un po’ opportunistico, di buoni principi, quali che fossero, ed efficaci scorciatoie».

Creato nel 1948 da Giovanni Bonelli e dal disegnatore Aurelio Galleppini, Tex Willer da tempo ha perso i contorni del «personaggio» per assumere quelli di una persona reale, del giustiziere che difende i deboli ed impone una giustizia personalizzata in base alle sue esigenze e ai suoi punti di vista in un West non sempre in technicolor.

Professoressa: perché un personaggio immaginario riesce ad incarnare tanti valori popolari? Lo spirito di un Paese si può affrontare da tante prospettive. Come tutti i serial, i fumetti sono molto conservatori in termini di forma e attirano lettori fedeli che seguono lo sviluppo lento della storia con pazienza. Una conseguenza di questa lentezza è che i fumetti hanno l’occasione di mantenere un continuo contatto con il mondo in cui circolano. Hanno il tempo e lo spazio per rispondere, pur lentamente, alle questioni del giorno e di riflettere lo spirito dei tempi. E hanno un ruolo anche più attivo rispetto a quello di essere un puro specchio dei tempi; almeno in parte, essi sono anche agenti di cambiamento, partecipando attivamente all’evoluzione della società a un livello umile e poco spettacolare.

Quale messaggio esprime ancora oggi questo cowboy tutto d’un pezzo, pronto anche a scantonare la legge pur di applicare quella che ritiene la «vera» giustizia? Anche se è un Ranger, ossia un rappresentante della legge, Tex si considera più che altro un giustiziere solitario, ha una moralità tutta sua, che non deve rispondere a esigenze o parametri altrui. In questo somiglia moltissimo a un certo tipo di cowboy del western americano, sia quello buono, che dimostra grande iniziativa e rischia in proprio quando la legge si dimostra limitata o inefficiente, sia quello cattivo, che la legge non la prende nemmeno in considerazione. Per quanto riguarda il messaggio, forse sarebbe ora di liberarci del fascino del «salvatore» al di sopra della legge, dell’uomo d’azione che, poiché fa le cose, non deve curarsi di farle nel rispetto delle regole.

Tex, con il suo carattere, è l’altra faccia dell’Italia? Quella onesta e solidale, ma anche decisa e cocciuta? In parte sì, e nella sua cocciutaggine non differisce tanto da molti uomini americani. Ma non dimentichiamo che Tex è anche una figura ambigua. È onesto e solidale, ma solo con chi vuole lui, con chi elegge a suoi amici. Quando c’è un conflitto di lealtà, Tex non offre un grande esempio di rettitudine. Del resto, neppure dovremmo aspettarcelo da lui: è uomo della frontiera, dove la lealtà è per forza costruita su rapporti quasi esclusivamente personali e in termini di sopravvivenza.

Ma non è proprio qui uno dei segreti del fascino duraturo di Tex? Quanto richiama l’Italia il West ipotizzato da Bonelli? Come paesaggio, il West di Galleppini non c’entra nulla con l’Italia. Ma come concetto, spirito o idea, moltissimo. La frontiera americana era una zona di trasformazione continua, crogiolo di una nazione in fieri. Allo stesso tempo, non va dimenticato che la frontiera è anche il luogo di annientamento di un’altra nazione preesistente. Mi riferisco ovviamente a quella dei nativi americani. Non è dunque tanto difficile ipotizzare che nel 1948 Bonelli e molti altri italiani avevano un gran desiderio di tuffarsi in questa geografia immaginaria che offriva non solo evasione, ma anche un modello di come ricominciare da zero.

 

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