Cultura

Roger Waters, un ritorno sontuoso per un disco senza censure

A 25 anni dal suo ultimo lavoro in ambito rock l’ex leader dei Pink Floyd regala un album che sferza il malcostume di un mondo che va cambiato
Roger Waters, un intenso primo piano - © www.giornaledibrescia.it
Roger Waters, un intenso primo piano - © www.giornaledibrescia.it
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Comfortably Roger. Sferzante, abrasivo, attuale. Venticinque anni dopo il suo ultimo lavoro in studio (almeno sul versante rock), Roger Waters regala un disco dai toni duri, spigolosi, in cui non cela il disprezzo per come va il mondo e per certi tecnocrati che lo governano (male) e ne abusano senza pietà. «Is this the life we really want?» mostra che Waters non ha perso una stilla della sua vis polemica, ma - soprattutto - del suo talento compositivo.

Con materiale di ottima qualità a disposizione, l’ex leader dei Pink Floyd ha scelto di affidarsi a un produttore come Nigel Godrich, già al mixer per band come i Radiohead, ma anche per Sir Paul McCartney. Quindi un uomo al guado tra old e new school, che sa svecchiare il sound senza snaturarlo. Ed è esattamente questa la cura prescritta ai dodici brani che compongono l’album, un ricostituente fatto di spruzzatine di elettronica e nitidezza ritmica, per rimettere al centro lo stile bassistico che Waters ha cesellato negli anni coi Floyd, fatto di note essenziali e suono profondo.

Forse l’esempio più riuscito di questa connessione è il «talkin’ rock» cupo di «When we were young», che poi apre le braccia alla splendida «Déjà Vu», dove Waters si riappropria dei suoi retaggi pinkfloidiani, con atmosfere tenebrose che si stagliano epiche nel tramonto di una melodia arricchita da quel mix acustico-elettrico che tanto ha amato in passato.

Rispetto ad altre prove soliste, l’artista nativo di Great Bookham ha abbandonato quel cantato fin troppo simile a una confessione, scegliendo toni più intimi, ma non per questo più «leggeri». «Picture That», ad esempio, ha qualcosa di sinistro, oltre a un testo che sferza senza pietà (e senza censure). Siamo - diciamolo senza mezzi termini - nel bel mezzo di un «Animals revival», ma come si può rimproverare a Waters di essere semplicemente se stesso? Il brano gode di un arrangiamento senza sbavature, con il refrain che lega le strofe davvero notevole. Così come lo sono le dinamiche, sensuali chiaroscuri pieni di fascino. La voce è a metà tra una confidenza e un anatema, con una abbondante dose di corrosività.

«Broken bones» è senza dubbio una delle perle del disco, una piccola oasi country folk, con uluati in lontananza e il fuoco che crepita nel camino. Potrebbe magari averla scritta Dylan, o forse chissà... Waters è un cowboy metropolitano che, dopo aver cavalcato, con ghigno beffardo, contro ingiustizie e soprusi, ha unicamente voglia di riposare le sue «ossa rotte». Ma è solo illusione: Roger chiede perché «signora Libertà» ci abbia abbandonato e, manco fosse un grillino del rock, dichiara il «vaffa day» per chi ci ha mentito, dicendo di non voler sentire le sue sciocchezze (il termine è un po’ più forte, in verità...) e le sue bugie. Capito, mr Donald?

Il Waters «politico» è un compositore imbizzarrito, ma che regala anche attimi d’estasi, con «The most beatiful girl». Un album maiuscolo per un gradito ritorno a casa di un diamante «per nulla pazzo» che illumina le tenebre.

 

 

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