Cultura

«Paure medievali, anzi nostre: epidemie e fine del mondo»

Malattie e tanti altri timori: Chiara Frugoni racconta in un libro cosa temevano di più i nostri antenati
La rappresentazione d'un lazzaretto-ospedale in un dipinto del Tardo Medioevo - © www.giornaledibrescia.it
La rappresentazione d'un lazzaretto-ospedale in un dipinto del Tardo Medioevo - © www.giornaledibrescia.it
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Paura di essere contagiati dalla pandemia, paura che non ci siano cure adeguate, paura, perfino, che sia iniziata la fine del mondo. Con il Covid-19, siamo tornati al Medioevo? Ci aiuta a rispondere a questa domanda il nuovo, appassionante libro di Chiara Frugoni «Paure medievali - Epidemie, prodigi, fine del tempo» (Il Mulino, 395 pp., con 211 immagini a colori, 40 euro), un catalogo delle grandi paure che incombevano sull’uomo medievale, con continui riferimenti dell’autrice all’attualità che stiamo vivendo. Ne parliamo con Chiara Frugoni, la grande medievista che ha origini bresciane.

Professoressa, quale era, per un comune uomo medievale, la paura più grande? Dipende dal tempo, e da quello che stava capitando. Ma, certo, una delle paure ricorrenti era quella delle carestie. L’agricoltura non conosceva la possibilità di accumulare riserve, non esistevano i silos. Se un anno andava male, non si sapeva come fare per attingere ad altre risorse. Nel Medioevo, inoltre, le strade non erano curate e in certe stagioni risultavano impraticabili. Osservando gli affreschi del Buon Governo a Siena (al centro del precedente saggio dell’autrice, «Paradiso vista Inferno. Buon governo e tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti», Il Mulino, 2019, ndr.), che celebrano una situazione felice della campagna e della città, avevo notato che non c’è un solo carretto. Tutti vanno a piedi, tutto è trasportato a dorso di cavallo o di asino: il che significa che le strade erano molto disagevoli.

Quali altri paure erano dominanti, oltre alla carestia? Appena si cominciava a sentire che stava arrivando la peste, questa terrorizzava tutti, perché contro la peste non c’era nessun rimedio. In altri momenti storici, il grande terrore, invece, era quello delle invasioni dei nemici: degli Ungari, dei Mongoli...

Restiamo alle malattie: che figura era quella del medico, nel Medioevo? Al tempo non si sapeva nulla né di batteri, né di virus. Si era assolutamente inermi di fronte alle malattie, e i medici potevano fare molto poco: si contentavano di guardare l’urina, valutandone il colore e la trasparenza, oppure tastavano il polso, e al massimo ordinavano un salasso. Ci sono varie fonti dell’epoca, fra cui Boccaccio, che parlano malissimo dei medici. Le ricette che potevano funzionare venivano soprattutto dalle donne, perché erano loro che in famiglia dovevano curare i propri cari. Le donne si tramandavano ricette di erbe, presiedevano al parto, spesso erano chirurghe bravissime. Abbiamo ad esempio il trattato di Trotula, medichessa di Salerno che dà ricette, alcune un po’ fantasiose, altre molto buone.

Come erano gli ospedali? Molto diversi dai nostri: più malati erano messi nello stesso letto, e così i contagi si diffondevano ancor di più.

Riguardo al sottotitolo del suo libro: a cosa si riferisce la parola «prodigi»? Con quel termine ho inteso ricordare tutti quegli avvenimenti che nel Medioevo erano catalogati così, perché non si riusciva a spiegare altrimenti molti fenomeni della natura. Ad esempio, non si sapeva che il vento del Sahara porta fino a noi le sabbie rosse, quindi si pensava che ogni tanto piovesse sangue. Oppure: guardando certi lampi particolarmente forti, li si descriveva come draghi. O ancora: le comete erano sentite come grandissimi presagi di sciagura. Prodigi, però, sono anche alcuni miti compensatori, che descrivo nel libro, come i Paesi del Bengodi, dove non ci sono classi sociali, non si lavora, la ricchezza è uguale per tutti e tutti possono mangiare a volontà cose squisite. Addirittura nel «Pays de Cocagne» (Il Paese della Cuccagna), un testo che risale almeno al XIII secolo, ci sono le grasse oche che vanno spontaneamente a farsi arrostire. In Boccaccio, per fare un altro esempio, nella terza novella dell’ottava giornata del «Decamerone», in una contrada chiamata Bengodi c’è una montagna di parmigiano grattugiato, dalla quale rotolano giù maccheroni e ravioli.

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