La neurobiologa Marta Paterlini: «Così la nostra pelle pensa e parla»

Cosa ci racconta la pelle del nostro modo di stare al mondo? L’abbiamo chiesto alla neurobiologa e giornalista scientifica Marta Paterlini, bresciana di origine, da anni di base a Stoccolma, autrice del saggio «La pelle che pensa. Il tatto come linguaggio universale, tra filosofia, neuroscienze e tabù sociali» in uscita il 15 ottobre per Codice Edizioni (disponibile in libreria al costo di 22 euro). Un viaggio tra scienza, filosofia, arte e società per restituire dignità al tatto, il senso più antico e universale, capace di raccontare chi siamo e di colmare la distanza tra i corpi nell’epoca digitale.
Dai miti dell’Odissea alle intuizioni di Aristotele, fino alle scoperte dei Premi Nobel David Julius e Ardem Patapoutian, Paterlini intreccia saperi e discipline per mostrare come ogni contatto sia una forma di linguaggio e di riconoscimento reciproco.
Dottoressa Paterlini, come è nato «La pelle che pensa»?
L’idea è nata durante la pandemia. Originariamente il fulcro era «la scienza dell’abbraccio». Sono ancora molto legata a Brescia, dove ho la mia famiglia e molti amici: era un periodo in cui non riuscivamo a tornare, e ricordo di aver chiesto loro cosa ne pensassero di questa idea. Era piaciuta, sì, ma poi è rimasta lì, sospesa per vari motivi. Purtroppo, solo un anno più tardi, abbiamo scoperto che mia madre aveva delle metastasi. Ricordo che le faceva molto male il contatto con il lenzuolo, che percepiva come pesantissimo, ma, al tempo stesso, le dava grande sollievo essere accarezzata gentilmente sulle braccia o sulla testa. Quell’esperienza ha fatto riaffiorare in me quell’intuizione iniziale. Cominciando a scrivere, l’abbraccio si è poi trasformato in qualcosa di più ampio: il tatto, il contatto.
Ma come ci parla la nostra pelle?
Sulla nostra pelle ci sono tanti recettori sensoriali e fibre nervose che costituiscono il sistema nervoso periferico e che raggiungono il cervello dandoci il senso del caldo, del freddo, della rugosità, della morbidezza, ma anche del piacere, che è dato da fibre nervose scoperte solo una ventina di anni fa. Il tatto è il senso meno conosciuto tra tutti.
Una curiosità che l’ha particolarmente appassionata?
Un aspetto interessante è come le conoscenze sul tatto, e in particolare sulle fibre di tipo C – quelle principalmente coinvolte nel piacere tattile – vengano oggi utilizzate in quello che si chiama neurodesign. Si tratta dell’applicazione delle neuroscienze alla progettazione di prodotti commerciali, per suscitare sensazioni piacevoli attraverso il contatto e influenzare così le scelte dei consumatori. Pensiamo, per esempio, a certe bottiglie di bevande gassate: le loro scanalature a forma di goccia trasmettono una sensazione di freschezza già al tatto, ancora prima di berle.
Un capitolo particolare è anche quello del tatto definito «4.0»...
Sì, questo capitolo raccoglie alcuni degli aspetti più curiosi e sorprendenti in cui mi sono imbattuta, alcuni di natura scientifica, altri meno. Per esempio, quando utilizziamo un oggetto rigido – come un bastone o una penna – è come se avessimo una sorta di estensione del braccio: il nostro cervello sa distinguere se stiamo toccando qualcosa di morbido, come un cuscino, oppure un materiale rigido. La parte più scientifica del capitolo, invece, riguarda gli sforzi di molte eccellenze della ricerca, anche italiane, per restituire la sensibilità e il piacere del tatto a chi l’ha perso.
Alcuni esempi?
Si lavora, per esempio, sulla creazione di braccia bioniche capaci di percepire il contatto, sia su impianti cerebrali che rielaborano la sensazione. Molto interessante è anche la ricerca sulla ricostruzione della pelle per le donne che hanno subìto un’asportazione della mammella a causa di un tumore: non si tratta solo di ricreare la forma, ma di sviluppare una pelle digitale in grado di restituire anche il piacere del tatto.
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