Cultura

Nei luoghi dell'Italia del boom, tra malinconia e gratitudine

Il volume «Viaggio nell’immaginario industriale» di Giuseppe Lupo è in edicola con GdB e Sole 24Ore
L’immagine scelta per rappresentare luoghi-simbolo del passaggio alla Civiltà delle macchine
L’immagine scelta per rappresentare luoghi-simbolo del passaggio alla Civiltà delle macchine
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Immaginario. È il concetto-chiave per entrare nel mondo de «Le fabbriche che costruirono l’Italia» narrato da Giuseppe Lupo, in edicola con il Giornale di Brescia o con Il Sole 24Ore (12,90 euro più il prezzo del quotidiano). Immaginario non è sinonimo di fantastico o sognato, è l’idea concreta, la rappresentazione collettiva che ha preso corpo nei tre decenni che portarono il nostro Paese ad una mutazione epocale e antropologica, da nazione rurale e chiusa a «manifattura d’Europa», a potenza produttiva.

Il libro nasce appunto come «Viaggio nell’immaginario industriale», nei luoghi-simbolo del passaggio italiano alla Civiltà delle macchine. Storia di aziende che hanno plasmato la fisionomia del Paese, di marchi che hanno segnato il nostro mondo, dall’Eni alla Fiat, dalla Olivetti alla Pirelli, dalla Marzotto alla Bassetti, all’Ilva. E storie di borghi diventati capitali industriali: Ivrea, Rescaldina, Valdagno, Sesto San Giovanni, Porto Marghera, Terni, Bagnoli, Pozzuoli... Lì crescevano, prorompenti, quelle che oggi, con una definizione abusata al limite del sopportabile, chiamerebbero «eccellenze italiane». Tredici puntate per l’edizione domenicale de Il Sole 24 Ore, la scorsa estate, che adesso vengono raccolte in un volume, con l’aggiunta di altre nove capitoli.

Per riscoprire l’Italia del boom?
Improvvisamente, nel giro di pochissimi decenni, l’Italia è uscita da secoli di immobilismo per entrare nella modernità. È l’Italia delle autostrade e degli autogrill, dell’emigrazione e della mobilità sociale. La fabbrica porta lavoro, benessere, speranza. Spesso trasforma a sua immagine tutto quel che le sta attorno. Ho voluto andare in quei luoghi, incontrare le persone che ci vivono. Anche se non è stato facile, ho trovato resistenze e diffidenza. Le aziende non sono preparate ad accogliere lo studioso, anche se si presenta con le credenziali de Il Sole 24 Ore e dell’Università.

Un viaggio nell’Italia che non c’è più?
No. Ed è proprio per questo che ho voluto iniziare da Settimo Torinese, dalla fabbrica della Pirelli disegnata da Renzo Piano, dove dominano i robot e la tecnologia. Volevo raccontare un mondo vivo e non morto, partendo dall’industria che ha saputo affrontare la sfida della globalizzazione. Anche se l’Italia è molto diversa rispetto ai ruggenti Anni Sessanta e sono finito a raccontare anche la storia di luoghi dismessi, come l’Alfa Romeo di Arese, la Bicocca di Milano, la Bassetti di Rescaldina, o Sesto San Giovanni. Nel mio libro prevale l’Italia che è cambiata, non l’Italia che ha chiuso i battenti.

Che cosa rimane di quel tempo?
Rimangono vivi, in alcune aziende, i legami con quel passato di grande sviluppo. Alla Olivetti di Pozzuoli, ad esempio, c’è ancora l’arredamento originale di quello stabilimento che ha fatto storia per la sua forza innovativa. Ma emerge anche una grande distanza dal clima di quei tempi. Non c’è più lo spirito, non c’è più l’anima di quell’Italia.

Qual è il luogo-emblema di questo tragitto?
Per la sua drammatica situazione, l’Ilva di Bagnoli. Un cimitero abbandonato. Alle spalle ha la collina di Posillipo, davanti ha un mare incantato... e lì vicino c’è Pozzuoli con la Olivetti. Ecco, quello è il luogo del confronto impietoso tra l’industria pesante e la fabbrica a misura d’uomo. Sono rimasto colpito anche dalla storia di Ottana, in Sardegna. Mattei aveva impiantato lì, in una terra ancora selvaggia, una fabbrica di chimica per il tessile. Lo stabilimento ha mutato la società agro-pastorale della zona, ha portato lavoro per molti, ha permesso alle donne di emanciparsi. Poi la fabbrica ha chiuso. Parlando con gli operai che ci lavoravano, hai la sensazione palpabile della loro delusione, come se la modernità li avesse illusi e traditi.

Adriano Olivetti, l’idea della fabbrica che diventa perno della comunità, che seguito hanno avuto?
Olivetti era una realtà unica. Era un progetto utopistico che ancora oggi vedi negli edifici di Pozzuoli. Ma è rimasta una grande lezione inascoltata. Ci voleva coraggio imprenditoriale, una visione che gli altri non avevano.

Esperienze bresciane non ce ne sono, se non marginalmente con la Marzotto...
Questo viaggio avrebbe potuto essere molto più lungo. E io vorrei continuarlo. Il Bresciano ha pagine interessanti che vorrei raccontare. Ci sono già contatti in questo senso, attraverso anche l’Università Cattolica.

E alla fine del viaggio, che sensazione rimane?
Di malinconia, nei confronti di un mondo che ha fatto sognare una nazione. Ma anche di gratitudine, per quanto hanno avuto quelli della mia generazione. E spunta la consapevolezza che lascio nelle mani dei miei figli un’Italia peggiore di quella che mio padre mi ha consegnato, anche se io non ne ho colpa.

 

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