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Il bresciano Micheletti in scena al Met di New York: «Porterò sul palco voci e passioni dei miei avi»

Enrico Raggi
Il baritorno sarà Marcello nella Bohème di Zeffirelli. Il debutto al Metropolitan sarà nel marzo del 2025
Luca Micheletti sul palco
Luca Micheletti sul palco
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«Quando varco per la prima volta una soglia importante provo speciali sensazioni. È come se la storia di quel luogo mi rivestisse: voci, sguardi, accadimenti. Resto in silenzio, ma dentro di me il dialogo è assordante».

Si preannunciano fitte conversazioni interiori, per il debutto di Luca Micheletti al Met di New York, programmato per la prossima stagione (cinque date nel marzo 2025) nel ruolo di Marcello nella «Bohème» di Giacomo Puccini, con la regia di Franco Zeffirelli del 1963. Ci siamo fatti raccontare come vive questa aspettativa.

Luca Micheletti, come affronta emotivamente questo importante appuntamento?

Sono nato in palcoscenico, ultimo erede di una dinastia di teatranti, considero il teatro una seconda casa - spiega -. A ogni esordio avvio un personale e segreto “rito” fatto di rapide occhiate, piccole scaramanzie, valutazioni acustiche, intuizioni tecniche. Penso agli avi, li interpello, li porto con me; sono legami che mi fanno mantenere saldi i piedi per terra. Restituisco ai miei progenitori gratitudine per la passione trasmessa, li ricompenso di quelle antiche fatiche, meno scintillanti ma ugualmente sincere. Trovo che il pubblico sia molto simile, a ogni latitudine. A noi artisti spetta il dovere dell’onestà e della condivisione, che sono indipendenti dalla “scatola” nella quale ci esibiamo. Per tutta la vita cerchiamo di attivare energia fra esseri umani. Arrivare al Met, un “tempio della lirica”, è il coronamento di un sogno, che mi riempie di responsabilità e di onore.

Come legge il ruolo di Marcello?

Resta il mio unico ruolo pucciniano; me ne hanno offerti altri, ma ho sempre dovuto rinunciarvi. Lo sento empatico: per stile, immediatezza, presenza scenica, bisogna essere molto attori. Il quartetto dei bohèmiens è scapestrato, divertente, malinconico, e Marcello ne è l’occhio più razionale. Prima del Met lo farò in altra location prestigiosa (ancora top secret), dopo mi aspetta Londra.

Luoghi topici dell’opera, a lei particolarmente cari?

Forse la frase cui sono più legato è “O bella età d’inganni e di utopie! Si crede, spera, e tutto bello appare”, sorta di esergo su una giovinezza al tramonto, terra di nessuno fra miraggi e mondo reale, struggente, umanissima, amara riflessione a margine nell’atto più scanzonato dell’opera. Vertice di eleganza passionale, dove i due termini non possono mai separarsi. Abbraccio rapido e febbrile di amore e morte. La vita è breve e incalzata dalla fine: perché tutte queste promesse non mantenute? Un’altra scena importante, nel finale: “Che ha detto il medico?” chiede Rodolfo. “Verrà”, gli rispondo. E nel salto discendente della mia voce si capisce che siamo al capolinea. Puccini asciuga l’orchestra, suonano piatti percossi con mazzuoli morbidi: siamo dentro una cerimonia funebre, Musetta intona una preghiera. Si schiude una commozione irrefrenabile, è difficilissimo trattenere il groppo in gola.

Ama quello storico allestimento di Zeffirelli?

Lo conosco “dall’interno” perché la mia interpretazione alla Scala dello scorso anno era quasi sulla stessa regia. Capace di mettere “in alzato” ciò che sulla carta da musica è solo a due dimensioni. Senza voli pindarici, sovrastrutture, ambiguità. Sono sue visioni, che prima non esistevano. Franco Zeffirelli è stato l’inventore di una tradizione di altissimo artigianato: regista, scenografo, cineasta, attore, artista a tutto tondo. È bello ritornare a questi labirinti di senso. Pieni di senso. Di buon senso teatrale. Che restituiscono una macchina sempre funzionante. 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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