Cultura

Micheletti: «Con Muti tutto assume un senso e si tramuta in arte»

Il baritono bresciano debutta nel «Macbeth» di Verdi, il 19 a Tokyo in forma di concerto
Luca Micheletti, baritono bresciano in scena il 19 aprile a Tokyo - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Luca Micheletti, baritono bresciano in scena il 19 aprile a Tokyo - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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«Dopo l’"Histoire du soldat" di Stravinskij d’inizio anno, ritorno a un altro uomo che incontra il male. "Macbeth" è la storia di anime tormentate dall’ossessione del potere, pronte a tutto, sconvolte dal dissidio fra pavidità e coraggio». Il baritono Luca Micheletti debutta come protagonista nel «Macbeth» di Giuseppe Verdi, eseguito in forma di concerto a Tokyo, lunedì 19 aprile, con la direzione di Riccardo Muti, primo titolo recuperato dopo le cancellazioni dovute al Covid.

«Lo scenario è uno dei più inquietanti panorami che l’Occidente ricordi - spiega  Micheletti -, una Scozia arcaica popolata di spettri e streghe. È un’opera cupa e feroce, percorsa da presagi, deliri, delitti, rimorsi, l’unica in cui Verdi si confronta con il soprannaturale e ci svela prospettive inedite di natura drammaturgica e musicale, con una perizia e un’inventiva avanguardistiche a tutt’oggi. Il grande maestro Muti mi sta guidando in un percorso di esplorazione, attento proprio a valorizzare lo scavo dentro i personaggi, nelle loro pieghe recondite, nei loro abissi. Seguirlo e apprenderne la lezione è un privilegio e un grande regalo».

Perché lo stile vocale di quest’opera è così particolare?
Qui Verdi formula richieste speciali per voci speciali. «Questi pezzi non si devono assolutamente cantare: bisogna agirli e declamarli con una voce ben cupa e velata», prescrive. Si tratta di una grande sfida esecutiva, oltre che interpretativa. Bisogna essere attori e rendere il personaggio tridimensionale (così come accade nel dramma originale di Shakespeare); ma è anche necessario mettersi alla prova per restituire l’ampia gamma di colori vocali che Verdi pretende, espressione di un viaggio nelle profondità dello spirito del protagonista. Questo ruolo è ovviamente destinato a un cantante, ma un cantante che deve sapere (e potere) alternare a pagine superbamente liriche - penso alla stupenda aria del quarto atto, «Pietà, rispetto, amore» -, vere e proprie grida, sussurri, mormorii. E così tutto acquista un senso, a livello musicale e teatrale.

E Riccardo Muti?
Insiste molto sulla grande teatralità che motiva ogni scelta musicale verdiana. Ovviamente, la mia vita in palcoscenico mi aiuta a cercare delle chiavi, ma perché aprano le porte giuste c’è bisogno della guida di un grande maestro. Con Muti tutto si spiega, assume un senso, si tramuta in Arte.

Otello, Rigoletto, Conte di Luna, ora Macbeth: cosa sta rivelandole questa strenua esplorazione verdiana?
La mia carriera operistica è iniziata proprio con Otello grazie a Cristina Mazzavillani Muti. Questo Verdi è il primo in cui sarò diretto da Muti, con il quale in precedenza ho cantato solo Mozart. Sono profondamente legato sia al compositore viennese, sia all’italiano. Geni della musica e del teatro, cibo per lo spirito. Se, da un lato, Mozart ci trasporta verso umani scenari che demistificano in maniera sublime la nostra esistenza, dall’altro Verdi ci mette spesso di fronte a mali estremi, dolori senza redenzione. Non credo si tratti di pessimismo. Come spesso avviene, quando l’arte ci mostra la tenebra, è per rendere i nostri occhi più sensibili alla luce.

 

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