Cultura

Da Sophie Kinsella a De Giovanni, cosa leggere e regalare a Natale

Il bookclub di dicembre parte con un omaggio alla scrittrice recentemente scomparsa e si chiude con tre consigli di lettura per chi vuole approfondire la politica estera: ecco i 12 libri consigliati dalla redazione
Leggere in inverno
Leggere in inverno
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Mentre le luci di Natale brillano e luccica il richiamo di copertine e storie sfavillanti da regalarsi e regalare come auspicio per l’anno che verrà, questo dicembre ci regala la notizia triste della morte di  Sophie Kinsella, pseudonimo di Madeleine Sophie Wickham. La prolifica autrice, fra le altre cose, dell’amatissima serie «I love shopping» è stata uccisa dal cancro. La omaggiamo in questo bookclub con la rilettura dell’ultimo libro della saga di Becky Bloomwood, uscito nel 2019: «I love shopping a Natale». Perfetto per il periodo e per questa uscita dicembrina, che vuole essere anche  un elenco da cui prendere spunto per i doni natalizi. Ci sono quindi romanzi e letture per tutti i generi di lettori e lettrici: thriller psicologici, gialli classici, saggi, storie d’amore…

«I love shopping a Natale»

Di Sophie Kinsella

(Traduzione di Stefania Bertola, Mondadori, 2019)

La copertina di I love shopping a Natale
La copertina di I love shopping a Natale

È strano ritrovare, a pochi giorni dalla sua tragica scomparsa, la vibrante voce di Sophie Kinsella nelle pagine di uno dei suoi più recenti scritti. Uno di quelli di prima. Prima che la diagnosi fatale irrompesse nella sua vita e la derubasse - chissà - un po’ della voglia di alimentare la serie che l’ha resa famosa per lasciare spazio ad altri scritti. Parliamo ovviamente di «I love shopping», romanzo diventato un brand, con la Bridget Jones dell’acquisto sfrenato e delle finanze scialacquate Becky Bloomwood che, dal Duemila e per i successivi vent’anni, imperverserà attraverso innumerevoli avventure. Mutando status sociale, da single a signora Brandon, cambiando professione e diventando addirittura madre. Senza però perdere quell’ottimistica, per non dire naive, attitudine alla vita che la rende un personaggio amatissimo.

«I love shopping a Natale» è la perfetta lettura delle feste. Scanzonato e irrimediabilmente comico, ci porta all’inseguimento delle disavventure di una Becky alle prese col più arduo dei compiti: organizzare il Natale per tutta la famiglia, dopo che i suoi genitori hanno deciso di abdicare alla tradizione e trasferirsi in un co-housing nel quartiere degli hipster Shoreditch a Londra. Cosa può andare storto? Apparentemente ogni singolo dettaglio che possiate immaginare e che Kinsella si diverte a descrivere con dovizia di dettagli. Una lettura piacevole e sfavillante, un vero balsamo contro lo stress quotidiano. Che a Natale, come insegna Becky Bloomwood, raggiunge livelli stratosferici.

Ilaria Rossi, redattrice Cronaca

«Piccole cose da nulla»

Di Claire Keegan

(Traduzione di Monica Pareschi, Einaudi, 2022, 104 pp., 13 euro)

La copertina di Piccole cose da nulla
La copertina di Piccole cose da nulla

Profuma di carbone e di dolci alla cannella il Natale a New Ross, la cittadina in Irlanda – siamo negli anni Ottanta – dove Bill Furlong vive con Eileen e le loro cinque figlie. La moglie amministra con giudizio le ristrette finanze della casa, le ragazze sono studiose e non hanno grilli per la testa, i dipendenti della sua piccola impresa di commercio di torba e carbone sono fidati, tutto il villaggio lo stima per la sua mitezza e generosità. Bill potrebbe godersi il tran tran quotidiano, eppure qualcosa lo rode. Sarà il clima di festa, sarà questo senso di attesa, ma la mente corre alla sua infanzia, quando con viveva con la mamma – una ragazza madre accolta nella casa di una vedova benestante – accontentandosi di poco, e sognando un futuro bruscamente interrotto dalla morte della genitrice. Quando durante la consegna del carbone al convento di St Margaret, casa d’accoglienza (e correzione) per le giovani «che si sono messe nei pasticci», trova per caso una ragazza rinchiusa nella carbonaia, dubbi e domande si insinuano nella sua mente, e la sua coscienza si chiede quale sia la cosa giusta da fare.

Può piacere a chi ama le atmosfere di Dickens – come il protagonista di questa storia – il breve romanzo di Claire Keegan, uscito qualche anno fa e trasposto fedelmente anche in un film con l’azzeccato e intenso Cillian Murphy (attualmente su RaiPlay). Qui non c’è il duro Scrooge di «Canto di Natale», piuttosto un senso di indifferenza diffusa, la scelta facile di girare lo sguardo davanti al bisogno dell’altro per proteggere il poco che si ha, contro cui la coscienza di Bill si ribella. Per lui non ci sono i fantasmi del Natale passato, presente e futuro, ma la memoria delle feste dell’infanzia (quando aveva chiesto in regalo un puzzle, e ricevuto una più pratica borsa dell’acqua calda), e la consapevolezza che quello che ora si possiede può scomparire da un momento all’altro. «Niente accadeva mai due volte – si trova a pensare –: ognuno ha a disposizione giorni e possibilità che non torneranno più».

Le «Magdalene», le case di correzione per ragazze madri gestite dagli ordini religiosi cattolici in Irlanda, sono state chiuse nel 1996, e solo negli anni successivi sono venuti alla luce gli scandali e le violenze che avvenivano all’interno di quelle mura. «Piccole cose da nulla» allarga lo sguardo all’intera società e alla complicità di chi preferisce «non sapere», allora come ora. Buon Natale di solidarietà.

Giovanna Capretti, vicecaposervizio Cultura

«La mia Ingeborg»

Di Tore Renberg

(Traduzione di Margherita Poderstà Heir, Fazi, 2024, pp. 180, 18 euro)

La copertina di La mia Ingeborg
La copertina di La mia Ingeborg

Thriller psicologico, tragedia familiare, analisi diaristica dei rapporti umani distruttivi (anche quando in apparenza romantici): «La mia Ingeborg» – che si può anche ascoltare su Audible – è un romanzo che costringe a guardare le zone d’ombra dell’animo umano. Il narratore è Tollak, un uomo isolato, duro, pieno di rabbia e rimorsi, che decide di raccontare la verità dietro la sparizione di sua moglie Ingeborg, la sua amatissima Ingeborg: un segreto custodito per anni in silenzio, destinato a scatenare ferite profonde su chi lo circonda, in particolare i tre figli. I due biologici, a cui chiede insistentemente di tornare a casa (nella valle abbandonata in favore della città) per ascoltare questo inatteso segreto; e poi Oddo, il ragazzo con un ritardo cognitivo di cui si prende cura da quando la madre lo ha abbandonato anni prima.

Con un registro narrativo spoglio ed essenziale – i capitoli sono brevi, le frasi taglienti, l’ambientazione fredda, aspra, nordica – l’autore scava nella mente di Tollak con una tensione sempre crescente. All’inizio sembra quasi un diario in cui l’uomo riversa la sua memoria, convinto che solo rivelando ciò che ha nascosto potrà liberarsi dal senso di colpa. Pian piano si avvertono il pericolo, il disagio, l’ossessione disturbante di un uomo che affronta l’abisso che ha contribuito a costruire. È così che il romanzo scuote senza scadere nel moralismo: non chiede simpatia per Tollak, non giustifica la sua violenza o il suo dolore. Non è né facile, né piacevole. Ma è uno di quelli che sedimentano e di cui alla fine, più che i fatti, si ricordano sensazioni e immagini.

Sara Polotti, redattrice Web

«Il giunco mormorante»

Nina Berberova

(Traduzione di Donatella Sant’Elia, Adelphi, 1990, pp. 79, 12 euro)

La copertina di Il giunco mormorante
La copertina di Il giunco mormorante

Un uomo e una donna si amano a Parigi. La seconda guerra mondiale li separa per sette anni. Lei, russa, continua a pensare a lui, che si trova a Stoccolma, la sua città; continua ad amarlo. Gli scrive delle lettere, ma non riceve alcuna risposta. Scoprirà, andando in Svezia a guerra finita per incontrare il curatore delle opere di un caro zio scienziato, che il suo amato si è sposato con una donna florida e risoluta. L’incontro è casuale e inevitabile. La donna florida e risoluta la accoglie con una cordialità apparentemente sincera ma facendo grande attenzione a non lasciarla mai sola col marito. Finché qualcosa cambia, ora alla donna converrebbe un contatto tra i due, e prova a realizzarlo.

Questa (senza finale) è la storia di «Il giunco mormorante» di Nina Berberova, un romanzo breve del 1958, tradotto in Italia nel 1990. Un’inconsueta storia d’amore sia per l’essenzialità (pregiata) con cui è raccontata sia perché è un pretesto per parlare d’altro, come subito suggeriscono i versi in esergo del poeta ottocentesco Fëdor Tjučev, dai quali deriva il titolo del romanzo.

«Fin dai primi anni della mia giovinezza – riflette la protagonista - pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla». E, ancora: «(…) l’uomo di tanto in tanto fugge a qualsiasi controllo , vive nella libertà e nel mistero (…)». Di questo parla «Il giunco mormorante» (e nel finale tutto torna): di libertà, della libertà che consiste nel vivere la propria identità più autentica e segreta, «anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese». Ed è questo che rende il testo di Berberova tanto attuale, ancora in grado, alla ventottesima edizione italiana, di portare un augurio prezioso a chiunque lo riceva in dono.

Francesca Sandrini, caposervizio Cronaca

«L’ispettore Alì»

Di Driss Chraïbi

(Traduzione di Giulia Colace, Editions Donnole, 1991, 181 pagine, 9,50 euro)

La copertina di L'ispettore Alì
La copertina di L'ispettore Alì

Provocatorio, schietto, divertente e spesso fuori luogo. È Brahim O’Rkouke, l’alter ego dello scrittore Driss Chraïbi, e protagonista del romanzo «L’ispettore Alì». Questa volta lo incontriamo in una nuova avventura che unisce ironia, critica sociale e nostalgia. Tutto ruota intorno all’arrivo in Marocco dei genitori scozzesi della sua dolce moglie Fiona: due signori composti, come la cultura britannica esige, le cui abitudini si scontrano inevitabilmente con quelle del vivace mondo maghrebino che li accoglierà per diverse settimane.

Ciò che accade è frutto della scatenata immaginazione dell’autore, tranne un soggetto reale: El Jadida, la città in cui le vicende si svolgono. Jdida, come la chiamano i local, non è solo uno sfondo, ma una presenza viva che respira nei suoni, nei profumi e nei gesti quotidiani di chi la abita. È il muezzin che intona il Corano e spaventa i nuovi arrivati scozzesi; è il cous cous fumante, poggiato su un grande tavolo attorno a cui i parenti si siedono e mangiano rumorosamente e con le mani. È il tè, zuccheratissimo e alla menta, bevuto in ogni momento del giorno. E sono i gnawa (danzatori arabi, ndr) in lunghi abiti colorati che battono le mani sulla pelle dei tamburi, intonando canti berberi. Driss Chraïbi racconta così la sua amata terra, portando il lettore a viverne ogni angolo. E lo fa non solo da scrittore, ma vestendo anche i panni di un regista: attraverso sequenze e piani l’autore dà ritmo e movimento alla narrazione.

«L’ispettore Alì» non è solo storia, ma anche una denuncia sociale verso una società e un Islam pieni di contraddizioni e dogmi. Il narratore, con ironia e uno stile a tratti grottesco, invita così il lettore a riflettere. È qui che sta Driss Chraïbi: tra il coraggio e la provocazione. Uno scrittore innovativo, un colosso della letteratura araba, che non solo intrattiene con la parola, ma provoca. E lo fa con gusto.

Nada El Khattab, redattrice Web

«Trilogia dei pirati»

Di Valerio Evangelisti

(Oscar Mondadori, 2019, pp. 948, 16,50 euro)

La copertina di Trilogia dei pirati
La copertina di Trilogia dei pirati

Se conoscete qualcuno che tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 ha sognato di trovare sotto l’albero di Natale il galeone dei pirati Lego allora avete trovato il libro perfetto da regalargli: «Trilogia dei pirati» di Valerio Evangelisti. Tre volumi, uniti ora in una sola raccolta, che accompagnano diversi decenni di storia de «I Fratelli della Costa» tra imprese mirabolanti, duelli, abbordaggi, tradimenti e fratellanza.

Si parte da Tortuga, l’iconica isola dei pirati che rappresenta l’unico vero punto di riferimento sulla terraferma per un popolo votato ai mari, passando per la leggendaria conquista di Veracruz, prima di chiudere con il folle epilogo della presa di Cartagena. Le atmosfere sono molto lontane da quelle piene di fascino romantico dipinte da Emilio Salgari e da Robert Louis Stevenson: lo scrittore bolognese ha preferito una ricostruzione fedele di un ambiente duro, squallido e ai confini della società. Fedele e rigorosa anche la ricostruzione storica delle ultime grandi imprese dei filibustieri nei mari dei Caraibi a cavallo tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Una vita libera e feroce che ha sempre affascinato il pubblico per la sua capacità di bruciare con la stessa intensità, ma anche con la stessa rapidità, di una supernova.

Jacopo Bianchi, redattore Teletutto

«Non conosco altro modo di vivere»

Di Vittoria Bussi con Simone Siviero

(Atene del Canavese, 2024, pp. 214, 15 euro)

La copertina di Non conosco altro modo di vivere
La copertina di Non conosco altro modo di vivere

«Non conosco altro modo di vivere» è il titolo dell’autobiografia di Vittoria Bussi, passata alla storia nel 2023 come la prima e finora unica donna ciclista al mondo ad abbattere il muro dei 50 orari nel record dell’ora su pista, record poi migliorato a maggio del 2025. Ma più che il racconto del record mondiale, impresa di per sé titanica se consideriamo che è stata realizzata da una ciclista non professionista (eccetto un brevissimo periodo), da una matematica prestata allo sport per di più in maniera totalmente indipendente, quasi autofinanziata, il libro indaga sulle ragioni profonde che hanno spinto un’accademica di Oxford che fino a 25 anni non era mai salita su una bicicletta se non da bambina con quella a rotelle, a intraprendere questa pazza idea di abbattere un record del mondo.

Dalla morte del padre, della quale Vittoria non riesce a darsi pace attribuendosi quasi un ingiustificato senso di colpa, l’atleta d’origine romana, oggi torinese d’adozione, trae un fortissimo desiderio di realizzare qualcosa di nuovo e inedito, sfogando nello sport tutta la sua rabbia repressa. Dalle corse campestri bazzicate in gioventù approda nella campagna inglese al triathlon e poi al duathlon (scartando il nuoto), finché scopre che in bici va davvero forte. Un italiano emigrato in Inghilterra con la passione per il ciclismo la arruola nel suo team e poi la fa correre con le grandi. Ma le corse su strada non sono il suo forte: Vittoria Bussi dà il meglio di sé in pista, dove non ha avversarie se non i suoi limiti da superare. Fra delusioni e mille difficoltà riesce nel 2018 a stabilire un primo record in Messico, poi ribattuto da altre due atlete nel 2021 e 2022.

Forte dell’esperienza passata e finalmente con una campagna di crowdfunding e un approccio scientifico che rappresenta di per sé un caso studio, riesce nel 2023 a superare la soglia dei 50 orari, che la proietta nella storia del ciclismo femminile. «Non conosco altro modo di vivere» è la storia di una sfida impossibile e delle ragioni profonde che spingono un essere umano oltre i propri limiti.

Paolo Venturini, redattore Sport

«L’orologiaio di Brest»

Di Maurizio de Giovanni

(Feltrinelli, 2025, pp. 320, 19 euro)

La copertina di L'orologiaio di Brest
La copertina di L'orologiaio di Brest

Una giornalista ossessionata dallo scoprire la verità sulla tragica morte del padre. Un professore universitario finito nella rete del sospetto e dell’ignominia. Lo sfondo lontano di un’Italia preda del terrore e del sospetto. Oggi come ieri. C’è quasi una simpatica sfrontatezza nell’atteggiamento con cui Maurizio De Giovanni esce da ogni forma di comfort zone per regalare, con «L’orologiaio di Brest», forse una delle sue opere più efficaci.

Per evitare fastidiosi effetti spoiler meglio non addentrarsi nei meandri di una trama che, sull’asse Francia-Italia, scomoda intrighi e giochi di potere. Stiamo pur sempre parlando di una indagine, anche se non ufficiale. Quello che spicca è la cura per i particolari, la scorrevolezza, la capacità di mescolare tribolazioni e paure antiche con le minacce della contemporaneità. E poi ci sono i personaggi: la passionaria Vera Coen, il suo mite collega, lo scontroso e disilluso professor Malchiodi. E quel legame tra loro sublimato a partire da una tragedia devastante. Che porta il prof a riconsiderare anche una figura ritenuta, tutto sommato, prevedibile come sua madre. Senza scordare la giovane Maddalena, la cui scomparsa si intreccia con la storia dei due protagonisti.

Certo, qualche aspetto magari potrebbe risultare un po’ scontato, ma il risultato finale è di tutto rispetto. Con una strategica apertura a (quantomeno) un seguito. Mettetevi comodi: la sensazione è che la serie non sarà breve. E non è affatto un male.

Rosario Rampulla, vicecaporedattore

«Il figlio di Bakunìn»

Di Sergio Atzeni

(Sellerio, 1991, edizione in brossura 2025, pp. 136, 10 euro)

La copertina di Il figlio di Bakunìn
La copertina di Il figlio di Bakunìn

Chi è il figlio di Bakunìn? Con l’accento sulla i – sardo e sardista –, che è tutto fuorché un refuso. Perché quello è il soprannome di un calzolaio, artigiano sopraffino e «testa matta» del Medio Campidano. Terra dura e generosa, come la tempra di chi la abita. Tullio Saba, per dire. Che dell’uomo che forgia le scarpe per i minatori di Guspini è, per l’appunto, il figlio. Un giovane bello e carismatico, capopopolo d’altri tempi, ammaliatore di femmine che canta alle feste, minatore ostile al fascismo prima, comunista dichiarato poi. E infine militante, sindacalista, inafferrabile nel suo costante anelito di libertà.

Tullio Saba è una cala di mare sardo in cui la Sardegna si specchia tutta. Nella sua intransigenza caparbia, nella sua sensualità aspra e genuina, nella sua irriducibilità. A tal punto che Sergio Atzeni – l’autore del libro, troppo, troppo presto scomparso, strappato da un’onda ad un destino letterario forse non del tutto immaginabile a noi, suoi lettori postumi – non ce ne offre un ritratto univoco. Il romanzo ha l’impianto di un reportage, quasi fosse un documentario girato in presa diretta: il giornalista con l’orecchino e i capelli lunghi (bistrattato dai suoi interlocutori più diffidenti), alter ego dello scrittore, va alla ricerca di dettagli di quell’uomo misterioso e lo scopre – noi con lui – attraverso le testimonianze di una variegata moltitudine di donne e uomini che l’hanno conosciuto o anche solo incontrato, o persino meno, lo hanno sentito menzionare come si fa con le leggende, che di bocca in bocca si gonfiano e volano via come colorati palloni nel cielo. Chi lo ha amato, invidiato, detestato, perduto, osteggiato, avuto per compagno di lavoro, di bevute o di letto. Ognuno lo racconta con le sue parole, cavate dalla terra, con gli aneddoti più svariati, fra sintassi, accento e lessico veraci.

Di Tullio Saba ne emergono così mille, con versioni discordanti persino sulla sua sorte (non senza un disvelamento finale). «Che cos’è la verità? Esiste?» si chiederebbe un perplesso Giorgio Scerbanenco. Ogni lettore, come ogni testimone, ne avrà probabilmente una sua, alla fine. Noi non possiamo che sollecitare la lettura di questo romanzo. E per didascalica completezza, aggiungere che Bakunìn, il filosofo russo, quello vero, padre rivoluzionario dell’anarchismo moderno e antagonista ostinato di Mazzini sulla scena italiana ed europea, un figlio lo ebbe davvero. Karl (o Carlo), che dopo mille peripezie - tra Italia, Russia, Francia e persino Eritrea, allora “colonia primigenia” - finì in un gorgo di truffe, patrimoni dilapidati, sospetti di spionaggio. Non senza aver sposato una donna, sarda, manco a farlo apposta, Maria Canetto. Di Bosa, sulla costa occidentale, una quarantina di chilometri a sud di Alghero e un bel po’ più a nord del Medio Campidano. Se da lì viaggiaste verso l’entroterra, diretti, per dire, a Macomer, potreste imbattervi in querce solitarie piegate dal vento e in un bar sardista di gente cordialissima. Altra terra, ma comunque selvaggia e lucente. Andateci, se vi capita. Sergio Atzeni ne sarebbe felice.

Gianluca Gallinari, caporedattore

Il mondo sta cambiando: tre libri per comprenderlo meglio

Il mondo sta cambiando. Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha causato un cambio netto del paradigma su cui si è basato il rapporto tra Stati Uniti ed Europa; non solo sono stati stravolti completamente gli ancoraggi su cui si è costruito il sistema delle relazioni internazionali a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Come interpretare gli eventi in corso, quale bussola utilizzare per comprendere gli sconvolgimenti in atto, a partire proprio dalla presidenza Trump. Ecco alcune proposte per comprendere meglio il mondo che ci circonda, con titoli attuali e grandi classici del pensiero politico pubblicati in questi mesi.

Il professor Mario Del Pero, nostro editorialista e docente di Storia internazionale a Sciences Po a Parigi ha pubblicato con il Mulino «Buio americano. Gli Stati uniti e il mondo nell’era Trump», (180 pagine, 16 euro). Nella sua recente lectio per il Mulino dal titolo «Gli Stati Uniti nell'ordine internazionale contemporaneo» ha spiegato: «Trump è il prodotto di processi e dinamiche, di una doppia crisi intrecciata: la crisi della globalizzazione e la crisi della democrazia americana. La globalizzazione ha travolto molte comunità deindustrializzate, mostrando l’incapacità delle democrazie di difendere pezzi della proprie società e quindi i propri cittadini. La democrazia americana è vecchia, con una costituzione scheletrica, un sistema federale disomogeneo e squilibri enormi nella rappresentanza. La polarizzazione precede Trump. Lui è il prodotto della radicalizzazione dello scontro politico».

Oggi lo specchio del nuovo mondo secondo Donald Trump (con il suo disprezzo per le organizzazioni internazionali, per l’Unione europea e al contempo la sua simpatia per gli autocrati) è il conflitto in Ucraina che si protrae ormai da quasi anni e che vede una guerra in Europa che non solo sfida Kiev ma anche il nostro modello democratico occidentale e la sua tenuta di fronte all’aggressività russa. Sono usciti moltissimi volumi sul conflitto ucraino. Ne segnalo uno su tutti scritto da due politologi, entrambi docenti all’Università di Bologna. Michele Chiaruzzi e Sofia Ventura hanno scritto «Perché l’Ucraina combatte» (Linkiesta Books, 250 pp. 19 euro). Il prof. Chiaruzzi che insegna Relazioni internazionali nella sua recente intervista al Giornale di Brescia ha precisato: «Il governo degli Stati Uniti vorrebbe sacrificare l’Ucraina sull’altare delle grandi potenze, in nome della gestione delle relazioni reciproche e dell’imposizione di un certo livello di direzione congiunta sulle altre potenze». Aggiungendo che «la guerra investe dal punto di vista esistenziale sia l’Unione europea sia l’Alleanza atlantica». Insomma gli amici di ieri sono diventati oggi nemici e mettono a rischio la nostra stessa sopravvivenza come comunità di destino.

E per capire come siamo arrivati ad esserlo, una comunità di destino, potrebbe essere molto stimolante riprendere in mano il libro di Ludwig Dehio «Equilibrio o egemonia. Un problema fondamentale della storia politica moderna», lo storico tedesco che fu allievo di Friedrich Meinecke, scrisse questo libro nel 1948 e in Italia venne pubblicato per la prima volta da Morcelliana nel 1954. Ora a 71 anni di distanza il libro viene riproposto da Scholé (288 pp., 26 euro), con una prefazione di Angelo Panebianco. Il libro ripercorre 500 anni di storia politica europea da Carlo VIII all’ascesa della Germania di Hitler analizzando l’ascesa e il declino del sistema degli stati europeo indagando la differente natura della potenze continentali ed insulari. Con una convinzione di base: la politica estera, la civilizzazione economica e le energie morali sono inscindibili. Una chiave di lettura valida ancora oggi e che ci permette di comprendere le dinamiche politiche internazionali sfuggendo alla contingenza.

Carlo Muzzi, caporedattore

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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