Cultura

Il critico: «Così traduco Quentin Tarantino in italiano»

Alberto Pezzotta, traduttore dell’ultimo «Cinema Speculation», sarà ospite mercoledì 6 aprile al Nuovo Eden
Il regista americano Quentin Tarantino - © www.giornaledibrescia.it
Il regista americano Quentin Tarantino - © www.giornaledibrescia.it
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È l’uomo che traduce Quentin Tarantino in italiano. Classe 1965, il milanese Alberto Pezzotta è un critico e studioso di cinema, materia di cui scrive per FilmTV, Blow Up, snaporaz.online, e che insegna allo Iulm.

Autore di saggi su Mario Bava, Luigi Zampa e il cinema di Hong Kong, ha tra gli altri tradotto Woody Allen, Abdulrazak Gurnah, Chinua Achebe, Derek Raymond, Colm Tóibín, Joyce Carol Oates. Domani, mercoledì, Pezzotta sarà tra i relatori dell’incontro «Aspettando Quentin Tarantino», alle 18.15 al cinema Nuovo Eden di via Bixio a Brescia (ingresso gratuito con prenotazione; info bresciamusei.com), organizzato dall’associazione Blue Velvet/Duels e da Brescia Musei in omaggio al cineasta americano che sarà in città giovedì 6.

Pezzotta, del regista di «Pulp Fiction» ha tradotto prima il romanzo «C’era una volta a Hollywood», poi il saggio «Cinema Speculation». È arduo restituirne la stile?

La cosa più difficile è trovare un linguaggio «basso» e colloquiale senza abusare del turpiloquio. Detto questo, occorre precisare che il gergo che QT utilizza nei due libri non è contemporaneo, ma relativamente datato, che richiama gli anni 70 che racconta, anche per dare un tocco d’epoca. La gente pensa ai personaggi dei suoi film e immagina forse che Tarantino si esprima alla stessa maniera. È così? Qualcosa di vero c’è, ma sono altre le cose spiazzanti, che colgono impreparato il lettore di «Cinema Speculation». Ci si aspettava che Tarantino parlasse solo di film di serie B e di western e poliziotteschi italiani, horror giapponesi, blaxploitaton o di oscuri registi europei; e invece parla di cinema mainstream fine anni 60 e 70, e sono film che hanno visto tutti, da «Rocky» a «Il mucchio selvaggio». Inoltre mostra una notevole profondità nel ricostruire il contesto socio-culturale in cui questi film venivano guardati. Le analisi sui personaggi gay del cinema americano anni 70, sul presunto fascismo dell’Ispettore Callaghan di Eastwood o sui problemi relativi alla rappresentazione degli afroamericani in «Taxi Driver», sono operazioni di grandissimo spessore culturale.

Nel libro, Tarantino è drastico verso gli anni 80, asserendo che «come negli anni 50, l’infantilizzazione del cinema è stato un tipico problema americano». Che ne pensa?

Posto che io amo moltissimo «Cinema Speculation», che mi è piaciuto tanto tradurlo e che ritengo dovrebbe essere adottato nei corsi universitari di Storia del cinema, non sono certo d’accordo con tutto ciò che dice. Trovo che il giudizio sugli anni 80 sia un’evidente forzatura, che dipende anche dalla sua prospettiva temporale. Dopo gli anni 70 vissuti in diretta, da bambino che frequentava il cinema, nel decennio successivo Quentin ha manifestato un po’ di disincanto, forse ha attenuato l’attenzione. Ma dire che tutti gli anni 80 sono all’insegna del «ritorno all’ordine» è una scemenza colossale. E allora «Velluto blu» di Lynch, «Vivere e morire a Los Angeles» di Friedkin e «Rusty il selvaggio» di Coppola?

Che posto ha Tarantino nella sua personale classifica?

È un regista in continua evoluzione, molto abile, capace come pochi di cogliere i mutamenti estetici. La rilevanza estetica del suo cinema è indubbia, ed è stato fondamentale per definire il post-moderno. Ciò detto, apprezzo più l’ultimo Tarantino che non quello di mezzo.

Un capitolo è dedicato ai critici cinematografici, e l’annunciato prossimo film di QT parrebbe incentrato su Pauline Kael, firma del New Yorker. È stata una scoperta, per lei?

Non ne sapevo molto. Il suo atteggiamento è sereno e condivisibile: non è astioso, non recita la parte (patetica) del bistrattato, come talvolta fanno i cineasti famosi. Più sorprendente la posizione nei confronti di Kael, che distrusse «Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!», un’intellettuale che spesso ha saputo essere sgradevole, come quando ha provato a minimizzare il ruolo di Welles in «Quarto potere». Cosa ci trovasse in Kael, mi piacerebbe proprio chiederglielo!

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