Il bresciano Micheletti dirige a Roma «L’ultimo viaggio di Sindbad»

«Da sempre frequento il teatro del Novecento, ma la messinscena di un’opera lirica contemporanea è una novità, esordio intrigante e salutare. Guardo avanti: non sono andato a cercare qualcosa, ma qualcosa mi ha raggiunto. Ogni arrivo è una partenza». Mercoledì 16 ottobre, al Teatro dell’Opera di Roma, va in scena la prima assoluta di «L’ultimo viaggio di Sindbad», racconto in musica della compositrice Silvia Colasanti, su libretto di Fabrizio Sinisi liberamente ispirato a testi di Erri De Luca, regia del bresciano Luca Micheletti.
«Con la compositrice e il drammaturgo abbiamo concepito una fantasia sul tema del viaggio – spiega Micheletti –. È uno sguardo trasversale che attraversa il tempo e la storia: via verticale, riguardo al percorso interiore alla ricerca di sé; tragitto orizzontale, nel raccontare le migrazioni odierne. In maniera ardita, come solo la poesia consente, vengono accostati immaginari biblici e coranici a riflessioni attinenti alla nostra identità. Tangenze di Oriente e Occidente, traiettorie, frizioni, comparazioni, dialoghi a distanza. È un’opera–mondo da cui emerge un Est del pianeta, ancora tutto da definire. Territori dai confini labili, incerti, mutevoli; d’altra parte, Borges aveva avvertito: “Ho trovato più Oriente a Cordoba di quanto ne abbia scoperto a Gerusalemme”».
Com’è composta l’opera?
Il testo è un ingorgo di fiabe indiane, miti persiani, leggende dell’Africa; e, ugualmente, brulica di domande: cosa cercano i profughi, cosa lasciano, in che sperano, quali chimere intravedono all’orizzonte della nostra vecchia Europa? Ho segnatamente caratterizzato Sindbad e i suoi marinai, i passeggeri, le voci della memoria, degli affetti, della preghiera. Il protagonista, simbolo del nomadismo, è ponte fra due universi. Così il teatro si lascia alle spalle gli umori transitori. Prima di schierarsi vuole capire; diviene scandaglio, lente d’ingrandimento, pensiero, coscienza. Per dare nuovamente un volto alla parola «umanità».
Come si svolge la giornata–tipo di Luca Micheletti?
Dipende dagli impegni. Se devo cantare organizzo il tempo fra studio, prove, trasferte. Ho da poco concluso un mese di recite a Londra, nelle «Nozze di Figaro». La mia famiglia mi segue sempre e quindi, nei momenti liberi, stiamo insieme. Quando la bimba dorme ne approfitto per esercitarmi. Il successo mi ha regalato gioie e responsabilità crescenti. Ma sono ancora curioso e pieno di energia. La mia fame non è placata. Desidero continuare a creare dentro e intorno al palcoscenico.
Quanto è cambiata la sua vita dopo il matrimonio e la nascita di sua figlia?
In tre si canta meglio. È una vita più ricca, più avventurosa, piena di colpi di scena. Come quando alla mia futura moglie Elisa ho proposto di sposarmi. Eravamo a Sydney, la notte di Capodanno, con i fuochi artificiali sullo sfondo. Le ho chiesto una stretta di mano a suggellare la promessa, e, invece della mano, le ho dato l’anello di fidanzamento. È rimasta senza parole. Con l’arrivo di Arianna posso contare su un’attrice in più: in maggio ha debuttato in scena, a soli 15 mesi.
I suoi prossimi impegni?
In novembre inauguro la stagione della Fenice di Venezia, sono Jago in Otello, a fianco di Francesco Meli, diretti da Myung–Whun Chung; nel febbraio 2025 ritorno alla Scala per debuttare nel ruolo di Ford in Falstaff; in marzo volo al Met di New York, sarò Marcello in Bohème. E nei prossimi mesi sarò a Brescia, ma non posso svelare di più...
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@Buongiorno Brescia
La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.
