Francesco e Leone papi in continuità: «Missione e vicinanza ai poveri»

Dopo circa otto mesi di pontificato, il libro «La forza del Vangelo» è una prima summa del pensiero di papa Leone XIV. Abbiamo intervistato Lorenzo Fazzini, direttore della Libreria Editrice Vaticana, che ha recentemente pubblicato il volume.
Direttore Lorenzo Fazzini, qual è il ritratto del pontefice che ne emerge?
Emerge un tratto principalmente, precisamente, agostiniano, cioè l’unità intrinseca e indissolubile in Prevost fra contemplazione e azione, cioè tra interiorità e azione apostolica. Aggiungerei, tra il suo essere unito a Dio e l’essere al servizio dei fratelli; questo è appunto un tratto specifico della spiritualità agostiniana, lo stiamo vedendo in maniera molto diretta e chiara nelle parole e nei discorsi di papa Leone.
Lei ha conosciuto da vicino papa Francesco e ora Leone XIV, quali sono gli aspetti di continuità e quelli di discontinuità?
La discontinuità è ovviamente legata al carattere della persona. Papa Leone è sicuramente più riservato, meno eclatante di Francesco. Ma se guardiamo bene le direttrici del pontificato vediamo che sono le medesime, soprattutto in una parola: missione. Papa Francesco era di un istituto missionario come i Gesuiti, pur non essendo mai stato in missione, Prevost invece è stato 20 anni in missione, prima come religioso, poi come vescovo. E nel libro «La forza del Vangelo» lo sottolinea: «Non sarò mai grato abbastanza a Dio per avermi fatto vivere l’esperienza della missione, che ha plasmato la mia spiritualità, la mia interiorità». Sicuramente l’incontro con un Paese povero, per lui che proveniva dai ricchi Stati Uniti, è stato fondamentale per la sua formazione di religioso e di uomo. Per capire papa Leone dobbiamo sempre tornare alla sua esperienza in Perù, una terra dominata da povertà e ingiustizie strutturali. La missione è ciò che unisce i due pontefici.

Le semplificazioni, soprattutto giornalistiche, amano le etichette di progressista o tradizionalista, senza però andare alla sostanza. Cosa pensa di queste definizioni?
Essere un cristiano conservatore penso che non abbia davvero molto senso, c’è uno sguardo che guarda all’indietro, dall’altra parte del resto c’è invece uno sguardo che si stacca dalla tradizione. Tutte e due queste correnti hanno un difetto di vista: una che pensa che il passato sia un rifugio in cui trovare sicurezza, l’altra che considera il presente non adeguato e immagina un futuro in cui sia sempre tutto migliore, e che comunque ci si debba adeguare al cosiddetto spirito dei tempi.
Non si ritrova quindi in nessuna delle due.
Io penso che il realismo cristiano sia quello che attinge dalla tradizione una continuità e allo stesso tempo che guarda al futuro con una fiducia e una speranza che ci fa immergere nel presente e nelle sue sfide.
Quali sono le sfide più urgenti della Chiesa?
La pace. Cioè l’azione che la Santa Sede sta conducendo e di cui papa Leone ha lasciato trapelare qualche bagliore per un’azione di pace prima in Medio Oriente, ora sull’Ucraina e non solo. Una pace «disarmata e disarmante», che non è uno slogan ma una verità ancorata nell’interiorità: un rifiuto della logica del riarmo, un rifiuto del muro contro muro, ma anzi la convinzione che si debba sempre aprire una breccia, considerare l’altro come un possibile partner. Cosa che nella storia è avvenuta in maniera a volte miracolosa: pensiamo alla fine della guerra civile in Irlanda, pensiamo alla fine dell’Apartheid in Sudafrica.
Per l’ennesima volta la Chiesa scommette sulla possibilità di incontrarsi come fratelli, anche quando sembra impossibile.
È una sfida difficile, che se oggi guardiamo all’Ucraina appare quasi impossibile. Ma penso fosse una sfida assolutamente impensabile anche quando per decenni e decenni francesi e tedeschi si sono combattuti nelle trincee di Verdun oppure nelle battaglie della Seconda guerra mondiale. Oggi tra loro non c’è inimicizia, c’è una partnership economica, politica, industriale e culturale. Le guerre non possono mai essere l’ultima parola nelle relazioni tra i popoli.
«La guerra non è mai inevitabile, le armi possono e devono tacere, perché non risolvono i problemi ma li aumentano; perché passerà alla storia chi seminerà pace, non chi mieterà vittime». Come si può trovare la forza di continuare a credere che la pace sia la strada da percorrere?
Come credere nella pace? C’è quella che il cristianesimo chiama virtù della speranza che è di natura sovrannaturale, ma parte anche dalla natura stessa della persona. Cioè la convinzione che mai il male può prevalere tanto nella persona e nella situazione politica, quanto nella situazione storica più nera, più disperata, anche più segnata dal male della cattiveria, dalla violenza: anche in questi casi può restare aperto un pertugio in cui farsi avanti la pace, farsi avanti la riconciliazione, farsi avanti il perdono e in certi casi il pentimento.
Una speranza cristiana che si è anche concretizzata nella storia.
Certo, la speranza cristiana ha anche un fondamento storico, cioè un’esplicitazione storica che avviene nel guardare le relazioni bellicose e anche conflittuali sapendo che queste possono non essere l’ultima parola, ma possono anche cambiare, girarsi, evolvere in situazioni di riconciliazione e di perdono. Pensiamo allo stesso conflitto israelo-palestinese che ebbe negli accordi di Camp David un abbraccio tra due rappresentanti, due popoli che per decenni si erano fatti la guerra. Questi segni di riconciliazione sono fondati nella storia, sono fatti concreti.
Papa Prevost: «La Chiesa non proponga una religione moralistica». Anche in questo caso si percepisce una continuità con papa Francesco.
Tra cinquemila vescovi in tutto il mondo, papa Francesco due anni fa ha scelto il cardinale Prevost per l’incarico delicatissimo di scegliere i vescovi di tutto il mondo. Penso che la continuità sia nella scelta che papa Francesco ha fatto sul cardinale americano, ora suo successore. I due elementi che abbiamo visto prima, cioè la caratteristica della interconnessione tra una forte interiorità agostiniana e l’azione apostolica tipica del religioso agostiniano sono quei due punti su cui probabilmente la scelta di Prevost da parte di Bergoglio ha trovato maggior fecondità.

I poveri sono al centro dei pensieri di papa Leone: «Siamo una Chiesa di poveri».
È indubbio che questo tema sta già segnando l’inizio di pontificato. Papa Prevost recupera la sua conoscenza della dottrina sociale della Chiesa (che penso riproporrà in maniera forte), che è una proposta realista appunto, perché parte da alcuni principi cardine come la sussidiarietà, la solidarietà, la designazione universale dei beni che sono ancorati in un’antropologia ben definita, un’antropologia cristiana di carattere relazionale. E che si sviluppa poi anche nella denuncia di tutto quello che va contro la dignità della persona (altro punto fondamentale della dottrina sociale della Chiesa), e quindi nella denuncia delle strutture di peccato di carattere economico, quindi quel neoliberismo che schiaccia la persona, che considera l’uomo un prodotto, un mezzo piuttosto che un fine.
Quindi anche in questo caso papa Leone è pienamente in continuità con i suoi predecessori.
Sicuramente sì, papa Prevost sarà un prosecutore dell’azione forte di denuncia di Francesco, che a sua volta si è posto in scia di quanto già detto da Benedetto XVI, e prima di lui Giovanni Paolo II e Paolo VI, ma potremmo andare indietro fino a Pio XII: tutti hanno denunciato il pericolo di un capitale che diventa un idolo e schiaccia la dignità della persona.
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