Lavoro e dignità sono una bögàda

«Madói che bögàda... ». Ci sono espressioni, nella parlata bresciana, che racchiudono in sé un universo intero. Me lo ricordano - una volta di più - le voci dei due pensionati che al caffé dell’oratorio si raccontano di quanto c’è voluto per sistemare panche e tavoli in vista dello spiedo solidale.
Per il nostro dialetto una bögàda non è solo «il bucato», ma è anche la fatica spesa per farlo (o almeno la fatica che si faceva una volta, tra sòi, às de laà e lisìa). Nelle lingue romanze spesso lavoro e fatica convivono nello stesso termine. Era così per i latini («labor» è sia l’operosità che lo sforzo penoso), è così per gli spagnoli e i francesi («trabajar» per i primi e «travailler» per i secondi), è così per alcuni dialetti meridionali (in napoletano il «faticà» è il lavorare sotto padrone).
Per quanto riguarda il bresciano, bögàda deriva dal francone «bukòn» che è proprio il lavare ammollo, il fare lisciva. Per una volta - però - non ci intriga da dove un termine arriva, ma piuttosto dove ci porta. Capire cosa ci racconta una bögàda. Capire dove si trova quel punto di incontro fra lavoro, fatica e dignità che tanto ha caratterizzato (e quanto caratterizza ancora oggi?) l’essere bresciani. Un peculiare punto di incontro straordinariamente raccontato da «Il silenzio della lavandaia» che la nostra Paola Carmignani ha dedicato al ritratto di lavandaia di Giacomo Ceruti e al suo sguardo. Rievocando in poche, densissime pagine Giovanni Pascoli, Galeazzo dagli Orzi, Teofilo Folengo, Vasilij Grossmann... Scriverlo sarà stato una bögàda. Leggerlo è un regalo per l’anima.
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