Il senso antibarocco per la meraviglia

Non c’è di che meravigliarsi: l’amore per la concretezza e la diffidenza per ogni vacuità sono caratteristiche che noi bresciani coltiviamo da secoli. Anche attraverso il senso che diamo alle parole del nostro vocabolario.
Pensiamo, ad esempio, al sapore che ha per noi l’uso della parola «meraviglia». Quella stessa che il massimo poeta barocco Giambattista Marino cita per sentenziare che «è del poeta il fin la meraviglia».
Cioè che lo scopo del suo poetare è suscitare stupore e ammirazione attraverso ardite metafore ed eleganti manierismi. Nella parlata dei nostri nonni la parola «meraviglia» trova un corrispettivo in maraèa, ma è una traduzione che - infilata dentro la sensibilità bresciana così antibarocca - muta sensibilmente di senso. Il termine maraèa viene dal latino «mirabilia», cioè l’insieme di cose ammirabili, stupefacenti. Ma se il Marino ne parla a inizio ’600, già nel ’700 il vocabolario bresciano dei seminaristi traduce «fà le maravèe» con «mostrare allegrezza eccessiva con gesti». Insomma, uno stupore esagerato e formale. Chiarissimo qui l’implicito giudizio negativo.
Giudizio negativo che troviamo confermato anche in alcuni modi di dire popolari. Perché se «fa le maraèe» è il mostrare formale stupore, i bresciani sanno bene che «le maraèe le düra tré dé». Che proprio perché vacuo questo atteggiamento è destinato a vita breve: fra tre giorni sarà soppiantato da altra effimera indignazione.
Non solo: i bresciani ricordano anche che «le maraèe le sta a püs a l’ös», cioè che chi oggi mostra affettato scandalo per le vicende altrui ha già - giusto fuori dalla porta di casa - chi è pronto a ricambiare. Non c’è di che meravigliarsi.
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