Il cielo del Romanino dove «Ogn'om se smarì»

«E sò màma là de sóta la vardàa / coi öcc de préda, stralünàda e düra / de pröf a ’stì malnàcc che cuntinüàa / a strepasàga sö la sò criatüra...». La forza spirituale e narrativa della Pasqua attraversa da secoli la brescianità.
Tanto che anche nel respiro epico del nostro Achille Platto (i versi qui sopra sono della Passiù del suo Bibbiù) io ci sento l’eco della trecentesca Passio Christi ritrovata nel 1914 dal Bonelli, uno dei più antichi documenti nella lingua dei nostri avi: nel suo calvario - riporta l’antico testo - «Christ indré se guardàva / vith la mather che l plurava / e li altri soi soror / tuti planzeva cum dolor». Provate ad ascoltare la Passù di Platto chiudendo gli occhi.
Vi si comporrà nella mente il ciclo di affreschi che Romanino ci ha lasciato a Pisogne: la folla inferocita che sale al Golgota in un intreccio di gambe, lance, cavalli e cani; e poi la tortura, la crocifissione, il dolore sul corpo di Cristo, e il volto stravolto della Maddalena... Cupo il cielo del Romanino che accompagna il momento della morte. Recita Platto: «Al ciél adès el cuminciàa a svoltolàs sö / coi nìgoi che curìa de sà e de là».
E nella Passio Christi: «Anchora dis: "O pather me, / e t’recomant el spirit me". / E xi cridant ad alta vos / morì Ihesu Christ salvathor. / La luna e ’l sol s’ascurì / e per quest ogn’om se smarì / e tuta la tera tremà / e ase morg resuscità. / Centurio dis verament / indel conspet de tuta zent: / "Questu era fiol de De". / Pò sen tornava tug in dre». Poi se ne tornavano tutti indietro. Ognuno alla propria casa, alla propria famiglia, al proprio lavoro. Qualcuno di loro, nel suo cammino quotidiano verso Emmaus, avrebbe fatto un incontro.
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