Dialèktika

Fìs (o fés), da secoli un marchio bresciano

Qual è l’origine di questa parola? C’è chi la fa risalire al latino «fixus», e chi invece segnala la vicinanza dell'avverbio tedesco «viel»
Velise Bonfante - © www.giornaledibrescia.it
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«Entorciada da ’n tàzer sensa tèmp / ma zöga en schèrs curius fis fis la mènt / s’engàrbia el töt e ’l niènt - en chèsto sta - / sércoi de ’n gói che gira e sbrissia vià». Così la quartina di apertura del sonetto «Tàzer sensa tèmp» che si è aggiudicato il primo posto al Premio di Poesia Santi Faustino e Giovita promosso da Fondazione Civiltà Bresciana (giovedì scorso la cerimonia). Nasce dalla penna di Velise Bonfante, poetessa che da sempre appoggia il sentimento su un sonoro dialetto del Basso Garda.

A me - che sono intriso di una koiné dialettale cresciuta tra Bassa e città - non può non colpire quel fis e che a me invece risuona nella memoria come fés. L’avverbio fis / fés significa «molto» ed è una di quei marchi linguistici che quando siamo al mare fra milanesi e toscani ci fa riconoscere al volo. Diffusissimo poi l’uso raddoppiato (fis fis oppure fés fés) a rafforzare il concetto. Quest’avverbio noi bresciani ce lo tiriamo dietro da secoli. La «Massera» cinquecentesca ricorda: «E fo una zuppa a i gagg / perché i ma matorìs. / I crida pò xì fis / che no’s pul gna sentì». Pare di vederla (e di sentirla) quella gatoléra miagolante che pietisce una zuppa.

Da dove nasce questa parola? Una lunga tradizione etimologica la fa risalire al latino «fixus», un amico come il professor Vittorio Nichilo segnala invece la vicinanza dell’avverbio tedesco «viel» che ha lo stesso uso. Io non saprei dirvi. So però che è parola brescianissima da secoli.

E so anche che il sonetto di Velise Bonfante ha una profondità che merita di essere apprezzata. Godetevelo fés. Anzi, fis.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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