Dialèktika

Empegolàt nelle parole tra abeti e vino greco

Dai termini forse non sembra, ma la pégola e la ràza (la pece e la resina) sono parenti
Una appiccicosa goccia di resina - unsplash.com
Una appiccicosa goccia di resina - unsplash.com
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Come al solito. Mi sono impelagato - o, meglio, impegolato - fra le parole. Questa volta è colpa del volumetto che il signor Liliano Angelo mi ha fatto recapitare in redazione da Sarezzo. È la raccolta di testi che fra il 1963 e il 1968 furono pubblicati su «Voce amica», il bollettino parrocchiale di Zanano-Noboli. Tra racconti in italiano e dialetto ci sono firme bresciane storiche: penso a don Giovanni Antonioli, oppure a Tóne Barbèl (nom de plume di don Pietro Rigosa da Collebeato) e a Grà de Péer (pseudonimo che, in tutta sincerità, non so chi nasconda).

Alcune righe mi hanno accalappiato. Là dove si legge che «le palànche le se tàca come la pégola», e qualche pagina più in là di un corpo «ontàt de ràza». Dai termini forse non sembra, ma la pégola e la ràza (la pece e la resina) sono parenti: i romani producevano la prima («picula») estraendo la seconda da pini e abeti. È anche per questo che i nostri nonni indicavano l’abete chiamandolo pesöl (per i latini era «picea abies», l’abete da pece). Ed è anche per questo che in Grecia si beve ancora oggi un vino chiamato «retzìna» che prende l’aroma dal legno di conifera in cui viene fatto maturare.

Sia quel che sia, la pégola e la ràza sono entrambe appiccicose. Tanto che razaröle erano gli impiastri antireumatici (oppure potevano esser ironicamente chiamati razaröle i fidanzatini sempre appiccicati). Mentre pégola può essere definito uno scocciatore che non ti lasci mai in pace. Così il termine empegolét indica un oggetto cosparso di pece e empegolàt qualcuno che sfortunatamente sia rimasto intricato in un labirinto di guai. Proprio come capita a me con le reti di parole.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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