Mita, una nuova mostra sugli arazzi di Kentrige e i tappeti persiani
Confermando la sua vocazione a luogo di ibridazione ed incontro tra saperi antichi e pratiche contemporanee, il Centro Culturale Mita (Museo Internazionale del Tappeto Antico) presenta la nuova mostra «Geografie della solitudine. Gli arazzi di William Kentridge e i tappeti della montagna», che inaugura questa sera alle 18.30 nella sede di via Privata De Vitalis 2 bis.
Il progetto espositivo, curato da Giovanni Valagussa in collaborazione con la Galleria Lia Rumma, si innesta a pieno titolo nel percorso di ricerca e sperimentazione avviato dal Mita, volto alla valorizzazione della pratica tessile come linguaggio artistico e strumento di narrazione. In mostra due universi apparentemente distanti – quello dell’arte contemporanea di Kentridge e quello della tradizione persiana dei tappeti Gabbeh e Sarab – si incontrano lungo il filo, non solo metaforico, di una pratica millenaria che rappresenta un mezzo espressivo universale e senza tempo, accostati in un dialogo che si rivela potente e sorprendentemente attuale.
Gli arazzi
Protagonista dell’esposizione è William Kentridge (1955), artista sudafricano di fama internazionale, celebre per la sua pratica che fonde cinema, disegno, letteratura, musica e teatro, intrecciando impegno civile e memoria collettiva. Per la prima volta a Brescia, viene proposta una selezione di cinque bellissimi arazzi monumentali della serie «Porters», avviata nel 2002: grandi pannelli ricamati secondo tecniche tradizionali in cui sagome nere di figure umane, spezzate e irregolari, si stagliano su fondali costituiti da carte geografiche antiche, che proiettano la narrazione in un tempo sospeso nella storia.
Figure che sembrano in cammino, forse in fuga, gravate da pesi o impedite nei movimenti, in bilico tra spaesamento e resistenza, in una tensione visiva che racconta una condizione esistenziale che travalica i confini della singola esperienza, facendosi specchio di un’umanità inquieta, profondamente sola e smarrita.
Il video
Sono le stesse sagome che animano anche un’opera video in mostra: una sfilata straniante e ipnotica, sostenuta da musica, animazione e dissolvenze, che amplifica il tema del vagare senza origine né meta, metafora di smarrimenti antichi e contemporanei. Kentridge si interroga e ci interroga sul senso del confine, sull’identità, sulla mobilità forzata, restituendo un’immagine frammentata del mondo, percorsa da solitudini che non possono non risuonare con la tragica attualità del nostro tempo.
I tappeti
Ad affiancare gli arazzi, una selezione di tappeti Gabbeh e Sarab provenienti dalla prestigiosa collezione Zaleski, datati tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo quarto del Novecento. Questi ormai molto rari manufatti sono originari delle aree rurali e montuose della Persia settentrionale e occidentale e si distinguono per l’ essenzialità formale e la forza simbolica della loro iconografia: campi sabbiosi attraversati da segni geometrici, animali stilizzati, presenze isolate disposte senza un ordine apparente.

Una grammatica visiva fatta di segni arcaici, che richiama un’estetica del frammento che trova sorprendente risonanza con la poetica di Kentridge, anche nel contrasto fra il loro acceso cromatismo e il bianco e nero prediletto da quest’ultimo. Se i tappeti, nella loro semplicità primitiva, parlano di orientamento e disorientamento, di abitare e smarrirsi, gli arazzi raccontano il cammino spezzato dell’uomo contemporaneo. Ma grazie a questo affascinante confronto possiamo cogliere negli uni e negli altri una comune tensione verso l’individuazione di un luogo altro, sicuro, di un rifugio, che in qualche modo diventa metafora di un futuro desiderato, di una pace necessaria.
L’esposizione sarà visitabile fino al 13 luglio nei seguenti orari: martedì e giovedì dalle 18.00 alle 22.00, domenica dalle 14.30 alle 19.30. Sono previste visite guidate gratuite. Un’occasione preziosa, non soltanto per scoprire un artista fondamentale della scena internazionale, ma anche per lasciarsi emozionare da un percorso espositivo che restituisce all’arte tessile la sua forza originaria, quella di un linguaggio vivo, critico e poetico, capace di raccontare l’uomo e il suo rapporto col mondo.
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