La Brescia colta e inquieta del Cinquecento in una mostra al Santa Giulia

S’intitola «Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552» e sarà allestita dal 18 ottobre al 16 febbraio. Ruoterà attorna alla figura di Fortunato Martinengo. La curatrice: «Vogliamo raccontare la città attraverso i dipinti»
Il ritratto di Fortunato Martinengo realizzato da Moretto (Londra, National Gallery) - © www.giornaledibrescia.it
Il ritratto di Fortunato Martinengo realizzato da Moretto (Londra, National Gallery) - © www.giornaledibrescia.it
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Formidabili quegli anni, verrebbe da dire di fronte alla densità di eventi e al fiorire di personalità nella prima metà del XVI secolo, epoca d’oro della pittura bresciana, in cui la nostra città fu centro di promozione culturale e spirituale con risonanza nazionale. A queste vicende è dedicata la mostra «Il Rinascimento a Brescia. Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552» che si terrà al Museo di Santa Giulia dal 18 ottobre al 16 febbraio 2025, a cura di Roberta D’Adda, Filippo Piazza ed Enrico Valseriati. Abbiamo chiesto alla curatrice alcune anticipazioni.

Roberta D’Adda, qual è l’intento della mostra?

«Non sarà una mostra d’arte, vogliamo raccontare la città attraverso i dipinti. Dopo gli studi di Longhi, le grandi mostre a partire da quella del 1965 su Romanino, le monografie, questi artisti sono ormai ben conosciuti sotto l’ottica della “pittura della realtà”, di cui diamo conto anche nel percorso della Pinacoteca. Ora è il momento di “raccontare la città” andando oltre il livello figurativo, mettendo a sistema tutti i risultati degli studi di Guazzoni, Savy, Frangi... Racconteremo la Brescia del ‘500 attraverso dipinti prestati da grandi musei del mondo, e oggetti scelti non solo per la loro qualità esecutiva ma per la loro capacità di narrare storie».

Quale sarà il punto focale dell’esposizione?

«La mostra è costruita attorno al ritratto di Fortunato Martinengo di Moretto, in prestito dalla National Gallery di Londra dopo una trattativa iniziata nel 2019. È uno dei ritratti più affascinanti di tutto il Rinascimento europeo. Fortunato Martinengo Cesaresco non era un personaggio qualsiasi, nella sua figura si condensa tanto del Rinascimento bresciano. Non è un militare, non è un politico, è un umanista a contatto con altri umanisti di tutta Italia, scrive poesie, gli vengono dedicati libri su vari argomenti, conosciamo le sue lettere che ci parlano della sua vita, della sua anima e della sua spiritualità. Da qui abbiamo tracciato le sezioni».

Come sarà strutturato il percorso?

«Si partirà dal 1512, anno di nascita di Fortunato Martinengo e del Sacco di Brescia ad opera dei francesi. Se non ci fosse stato il clamoroso Sacco di Roma del 1527, quello di Brescia sarebbe stato certamente l’episodio più emblematico di questo tipo di tragedia. Le fonti ci dicono che “la notizia corse per tutta Europa”, e la vicenda ebbe strascichi importanti, con tensioni politiche e lotte tra le fazioni interne alla città fino alla metà del secolo. Opera emblematica in questa sezione sarà il rilievo di Bambaia con il Sacco di Brescia, dai Musei del Castello Sforzesco di Milano. E l’Armigero di Romanino dai musei di New Orleans racconterà la dimensione guerresca».

Come reagì la città a questo clima?

«Il ritorno di Brescia ai veneziani nel 1516 segna anche un revival del culto dei Patroni nel segno della “concordia cittadina”, in anni in cui anche sotto il profilo della religione c’erano forti tensioni. A Brescia era passato Savonarola (ci sarà il suo ritratto di Moretto, dal Museo di Castelvecchio a Verona), era penetrato il pensiero di Erasmo da Rotterdam, e anche all’interno della gerarchia ecclesiastica cittadina si dibatteva di un ripensamento generale dell’organizzazione della Chiesa e di un ritorno del cristianesimo alle origini. Fioriscono congregazioni laiche o religiose come la Compagnia di Sant’Orsola di Sant’Angela Merici, impegnate nella carità e nell’assistenza ai bisognosi. Di Moretto sarà esposto il San Rocco curato dagli angeli, da Budapest, in una sezione dedicata al tema della cura e dell’assistenza che definisce un carattere forte della città. Sono gli anni che preannunciano il Concilio di Trento, con un forte richiamo al tema dell’Eucarestia e alla figura di Cristo. Come racconta il Cristo con l’Angelo di Moretto, che resterà però in Pinacoteca, che inviteremo a visitare assieme alle chiese di San Nazaro e di San Giovanni».

E il mondo laico come visse questa crisi?

«Racconteremo l’inquietudine del pensiero, che si concentra da un lato sulla precarietà dell’esistenza, sul ruolo dell’Uomo nel suo tempo, dall’altro cerca conforto in particolare nella natura e nella musica. Dedicato a Fortunato Martinengo è un trattato di Pietro Aaron del 1545, il “Lucidario in musica” in cui si identifica la musica come conforto spirituale, fonte di armonia di fronte ai travagli della vita. Del 1544 sono “Le dodici giornate” di Silvano Cattaneo, in cui il protagonista Fortunato Martinengo - sempre lui - e una compagnia di amici si recano in gita sul lago di Garda, in mezzo alla natura, e durante le pause leggono poesie ed eseguono musica, sul modello degli “Asolani” di Pietro Aretino. Esporremo il Pastore con flauto di Savoldo dal Getty di Los Angeles, e il violino “Amati Carlo IX” da Cremona».

Ci sarà spazio per il mondo femminile?

«Raccontando di come uomini e donne si collocavano idealmente nella società, con quali valori e virtù, porteremo alla luce l’aspetto femminile, meno noto, al quale la società era invece attenta. All’interno dell’Accademia dei Dubbiosi, fondata (ancora una volta) da Fortunato Martinengo, Vincenzo Maggi scrive nel 1545 un “Breve trattato dell’eccellenza delle donne”, riprendendo una tradizione petrarchesca. L’umanista milanese Ortensio Lando nel 1548 pubblica una raccolta di “Lettere di molte valorose donne” tra cui esponenti di nobili casate bresciane. E non dimentichiamo che in quegli anni erano attive poetesse come Veronica Gambara. Quanto agli uomini, l’aspetto sociale si esprimeva nella partecipazione a tornei e giostre, dalle forti dimensioni simboliche e letterarie, come quella famosa del 1548 in cui partecipa anche il nostro Fortunato Martinengo».

Di cosa ci parla il suo ritratto «pensoso»?

«È l’emblema di una “dimensione del dubbio”, una sorta di pessimismo stoico, di consapevolezza malinconica della fugacità della vita. Nel dipinto, sul suo copricapo c’è un cartiglio con una scritta in greco che potremmo tradurre in “ahimé, troppo desidero”, segno di quella tensione interiore a travalicare i limiti della condizione umana che animava gli intellettuali dell’epoca, assieme alla coscienza dell’impossibilità di realizzare questa aspirazione. Noi racconteremo tutto questo».

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