Cultura

Al Festival del Vittoriale, il pubblico vola in alto con Vecchioni

Oltre 1.400 spettatori per il Professore, nell'anfiteatro di Gardone, che anticipa «Samarcanda» e poi la replica nel finale
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VECCHIONI, LUCI AL VITTORIALE
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Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Roberto Vecchioni le dispensa a piene mani sotto le stelle gardesane, dando sfogo alla sua inesausta voglia di poesia e di infinito. In musica, naturalmente, perché il Professore della canzone italiana è tra i grandi cantautori del nostro tempo e racconta meravigliose storie con parole e note: ieri sera, al Vittoriale, lo ha fatto con il consueto trasporto e consumato mestiere, a volte con la voce incrinata, per oltre 1400 spettatori.

In principio, c’è in vetrina «L’infinito», concept-album del 2018, che Vecchioni ha presentato meno di quanto avrebbe voluto, nei live: in quest’estate post(?) pandemica riavvia il discorso (romantico) interrotto con la malinconia vibrante di «Una notte, un viaggiatore». Ma poi spiazza tutti anticipando «Samarcanda», canzone-totem sull’ineluttabilità della sorte, in genere destinata agli "encore": «Le bambine - azzarda, riferendosi forse alle nipotine - si lamentano che la faccio quando già si sono addormentate, per cui stasera me la gioco subito».

  • Lo spettacolo di Roberto Vecchioni al Festival del Vittoriale
    Lo spettacolo di Roberto Vecchioni al Festival del Vittoriale
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Per antitesi, segue «Ti insegnerò a volare», scritta per Alex Zanardi, «la quale - spiega - sostiene il contrario rispetto a "Samarcanda", che cioè puoi essere padrone del tuo destino». Quindi attacca «Ogni canzone d’amore», consapevole che il tema è usurato, ma che il sentimento può essere declinato con sfumature inedite: una chicca da applausi scroscianti, al pari dell’intensa title-track. Anche «Com’è lunga la notte» e «La mia ragazza» appartengono all’ultimo disco, ma stazionano un gradino più sotto, per ispirazione e afflato lirico.

È come se Vecchioni si trovasse nel salotto di casa (d’altronde, ne possiede una poco distante da qui), in compagnia di vecchi amici: forse per questo - dopo alcuni divertenti aneddoti su D’Annunzio - estrae dal cilindro (e dall’oblio) «Vincent», antica, struggente, suggestione sull’amicizia tra Van Gogh e Gauguin. Poi ritorna, in acustico (accompagnato solo dalla chitarra di Massimo Germini) una lettera d’amore, «Cappuccio Rosso», imperniata su una giovane curda che combatte contro l’Isis.

Da un repertorio di oltre 500 brani, l’artista milanese attinge «La bellezza» (tenera, piena di pathos), «Milady» (portentosa, arrembante, rock), «Mi manchi» (nostalgica), «Le mie ragazze» (adorata da Franca Rame, alla cui memoria va la dedica), la "politicamente scorretta" hit «Voglio una donna» (che vinse a sorpresa il Festivalbar, nel 1992). La dolente «Vorrei», la sconvolgente (definizione dell’autore) «Le rose blu», la positiva «Sogna ragazzo sogna». E poi la fede nell’umanità di «Chiamami ancora amore», la dolcezza solare e infinita di «Vai, ragazzo» e quella lunare dell’immancabile «Luci a San Siro». E tra gli applausi, ancora «Samarcanda».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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