Lorenzo Mattotti: «Vi proporrò la mia parte più positiva ed energetica»

«A Brescia proporrò la parte più positiva ed energica del mio lavoro». Così Lorenzo Mattotti anticipa lo spirito della mostra «Storie, ritmi, movimenti», a cura di Melania Gazzotti, da giovedì prossimo, 14 settembre (intera giornata inaugurale a ingresso gratuito) al 28 gennaio al Museo di Santa Giulia.
Un percorso ispirato da musica, cinema e danza, tre mondi contigui che entrano in risonanza nell’inconfondibile stile espressivo del disegnatore, pittore e animatore bresciano di fama internazionale. Anche il cinema Nuovo Eden sarà coinvolto nell’evento - prodotto da Comune, Fondazione Brescia Musei e Alleanza Cultura - con due rassegne ad hoc: una dedicata ai film firmati da Mattotti (tra i quali il suo «La famosa invasione degli orsi in Sicilia», tratto da Dino Buzzati, e il «Pinocchio» di Enzo D’Alò), l’altra da lui curata.

Mattotti, la mostra declinerà tre anime della sua poetica: come convivono in lei e come le ha coniugate?
Le passioni per musica e cinema mi hanno accompagnato fin da ragazzino. La danza è un soggetto che ho approfondito in vari momenti della mia carriera, per manifesti, dipinti e fumetti. Per la mostra bresciana ho realizzato un trittico di tele ad acrilico: si tratta dei quadri più complessi che ho mai fatto, perché raffigurano molti personaggi e sono sia narrativi sia tendenti all’astrazione. Emergerà positività, senza dimenticare alcuni aspetti più drammatici e oscuri come quelli riscontrabili nella collaborazione con Lou Reed per il libro «The Raven» o nelle grandi tavole a china disegnate per la messa in scena dell’«Hänsel e Gretel» di Engelbert Humperdinck all’Opéra di Parigi.
Passando al cinema: cosa rappresenta nella sua vita e che affinità ha col disegno?
È una miniera per l’immaginario! Mi sono nutrito di film e fumetti - che si sono sempre influenzati a vicenda - e più tardi è arrivata anche la letteratura. Sono cresciuto andando al cinema con i miei fratelli: entravamo gratis, grazie alla tessera da ufficiale militare di mio padre. Era un’abitudine quasi quotidiana, un antidoto alla noia. Vedevamo di tutto: dall’avventura alle storie di guerra fino ai peplum e ai titoli pensati per confrontarsi con il brivido e la paura. Andavo pazzo per personaggi come Maciste, Ercole, Dracula, Frankenstein, l’Uomo Lupo. Ricordo la passione per i western di Sergio Leone, per le commedie comiche divertenti francesi come «Tre uomini in fuga», come anche per Totò. E all’improvviso, ogni tanto, capitava di vedere film che sembravano stranissimi e ci meravigliavano, che poi crescendo riconoscevamo come capolavori d’autore, come nel caso di Buñuel.
C’è sempre qualcosa di festoso nelle sue immagini, nell’uso espressivo del colore, nel movimento: è come se le geometrie fossero pensate come coreografie...
Qualcuno ha scritto che i miei disegni hanno una logica musicale. Un disegno, del resto, è una coreografia di linee e colori. Li associ, dai un ritmo e crei forme che l’occhio è obbligato a seguire. Credo che il mio lavoro sia, di fatto, un’organizzazione dell’energia.
Lei ha raccontato che il suo maestro delle elementari c’entra con la sua predilezione per le matite... Quanto è importante l’approccio all’arte in giovane età? In che misura la scuola può favorirlo?
Più che una folgorazione, all’inizio per me è stato un obbligo (ride, ndr): il maestro era proprio ossessionato dalle «cornicette». In ogni caso è stata l’occasione di una scoperta. La scuola deve favorire la creatività e coltivare l’immaginario, dando quella possibilità di esprimere le emozioni che salva, perché consente di affrontare paure e crisi. Trovare un canale d’espressione è un grande aiuto nella vita. E mi raccomando: ai bambini non bisogna mai dire che un disegno è brutto! Il disegno è libero: non esistono disegni brutti.
In un mondo caratterizzato dal digitale, che consigli dà ai giovani appassionati di illustrazione per orientarsi?
Guardare le opere di molti autori, «leggere» tante immagini, studiarle, provare a copiarle, insomma «assorbirle», se emozionano. Disegnare una cosa ci insegna a vederla davvero, perché prima bisogna capire com’è strutturata. Se pensiamo a ogni tratto come al secondo di vita necessario per tracciarlo, lo viviamo in modo più intenso. E arrivare a un segno intenso significa comunicare emozioni. Si impara un alfabeto. Purtroppo c’è molto analfabetismo, si pensa spesso a quello che si illustra, ma non al «come». Realizzare il fatto che il disegno diventi una registrazione di ogni attimo della vita... a me l’ha salvata! Ho capito che significa «costruirsi» la propria storia: i disegni piano piano diventano i tuoi mattoncini.
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