Cultura

Le favole della buonanotte lette da Tarantino: lo show al teatro Grande

Metti una sera a Brescia con uno dei registi più leggendari di sempre. Performance da brivido di Tarantino che legge «Cinema Speculation»
Quentin Tarantino sul retro del teatro Grande a Brescia - Foto New Reporter Papetti © www.giornaledibrescia.it
Quentin Tarantino sul retro del teatro Grande a Brescia - Foto New Reporter Papetti © www.giornaledibrescia.it
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Metti una sera, a Brescia, con Quentin Tarantino che ti legge le fiabe. Prende il suo libro «Cinema Speculation» e… punta la sveglia. «Trenta minuti, non di più: quando suonerà, smetterò». Insieme al conto alla rovescia iniziano i sogni: sia quello d’avere a disposizione un narratore così speciale, sia l’incanto dei suoi racconti, talmente cinematografici da risultare onirici. Pagine di cinema e vita, un gioco di riflessi che inizia a mo’ di romanzo di formazione e si trasforma in fucina di ipotesi critiche sopraffine, degne di una lectio accademica. Certo, con qualche interiezione pulp snocciolata qua e là, come punteggiatura d’autore.

Il regista è in piedi, passeggia in solitaria sul palcoscenico del Teatro Grande (sgombrato dalle due poltroncine che nella prima parte della serata di ieri, unico evento live in un teatro italiano per il regista statunitense, l’avevano visto accomodarsi in dialogo con il giornalista Antonio Monda), si gode gli sguardi attenti e ammaliati del pubblico. «Non ho mai fatto una cosa simile! Leggerò degli estratti», esclama elettrizzato, mentre s’avvia ad interpretare con enfasi controllata alcuni dei più brillanti brani del suo saggio, modulando i toni in base al racconto, sottolineandone i passaggi coloriti con sorriso sornione.

Un figlio di Hollywood

Questo particolare «C’era una volta a Brescia» tarantiniano inizia dal primo capitolo, raccontando la storia della sua infanzia da piccolo antropologo, trascorsa a osservare gli adulti, nella specifica cornice della sala cinematografica, studiandone gusti e abitudini, divertendosi un sacco.

Tarantino è un vero e proprio «figlio di Hollywood», si comprende bene nelle prime pagine: lo è innanzitutto dal punto di vista geografico, ha vissuto il boulevard fin da bambino. Una prospettiva importantissima per capire sia i generi cinematografici che il funzionamento dell’industria, considerandone le ricadute sul pubblico a partire direttamente dalle sensazioni della platea, ascoltandone risate e commenti.

Aspetto bizzarro e di certo peculiare per la formazione di Quentin è l’aver frequentato le sale con la madre fin da piccolo (dai 7 anni, per la precisione) senza alcuna cautela rispetto alla tipologia di film scelti, imparando dunque a orientarsi nel mare magnum del cinema proprio come chi viene buttato nell’acqua alta per imparare a nuotare. È l’istinto di sopravvivenza, in quei casi, ad assumere il controllo. E il giovane prodigio destinato al successo non solo si è salvato, ma ha iniziato a sguazzare allegramente tra le onde della storia del cinema, trovando una prospettiva sfiziosa: quella di considerarne gli effetti sugli adulti, per studiare l’umanità sottoposta alle visioni osservandone le reazioni, come se si trattasse d’un insieme di cavie da esperimento.

Sintetizza, egli stesso, in modo emblematico, riferendosi alle quelle serate trascorse al cinema con mamma e il suo compagno (oltretutto a vedere 2 film per volta): «In un certo senso ero un piccolo etologo che, anziché i grizzly, osservava gli adulti di notte, nel loro habitat naturale».

Gli anni Settanta e l'amore per Rocky

Mentre il tic tac della sveglia incalza nel suo countdown per tornare alla realtà, arriva l’ora dell’illuminante capitolo «La New Hollywood degli anni Settanta. Gli autori antisistema contro i Movie Brats», Questi ultimi erano i «ragazzacci del cinema», quei Coppola, Bogdanovich, De Palma, Scorsese, Lucas, Milius, Spielberg e Schrader che furono i primi registi con studi accademici sulla settima arte alle spalle, pronti a rinnovare tutto.

Ecco poi il focus su «Taverna paradiso», esordio da regista di Sylvester Stallone, che offre a Tarantino l’occasione di imitare il vocione cupo e velato di Sly, omaggiato con trasporto confidando la propria passione per «Rocky»: considera il primo film della saga una pietra miliare dell’epoca, grazie alla sua natura di storia di rivalsa che sovverte la tendenza all’autoflagellazione diffusa a quel tempo. «Rocky II», poi, ne esce addirittura meglio: viene decantato osservando quanto Stallone, in scrittura, sia riuscito a immedesimarsi anche nel suo avversario Apollo Creed. Applausi a scena aperta sul racconto dell’incontro di boxe, reso coinvolgente da timbrica e ritmo incalzante della lettura.

Speculazione onirica

Proprio sul più bello di una tirata sugli anni Ottanta (tratta dal capitolo sul precedente «Organizzazione crimini» di John Flynn, del 1973), suona la sveglia, impietosa. Ma ad esser salvifico ci pensa Quentin, fattosi addirittura «deus ex machina» del proprio stesso spettacolo, che regala al pubblico qualche minuto in più.

Il suo «Arrivederci» in italiano, pare il saluto affettuoso di un familiare che quatto quatto se ne va dopo aver chiuso il libro di fiabe della buonanotte.

Sogno o speculazione sul cinema? In questa ambivalenza la sua eredità.

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