Cultura

Le cose che non si raccontano, Calvino e gli altri libri consigliati per settembre

È il mese di Librixia e quindi di tempo per incontrarsi fisicamente a parlare di libri. Eccone alcuni
La tenda dei libri di Librixia in piazza Vittoria (foto 2022) - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
La tenda dei libri di Librixia in piazza Vittoria (foto 2022) - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Siamo di nuovo in quel periodo dell’anno in cui si concentrano le occasioni per incontrarsi e parlare di libri di persona. A Brescia succederà dal 23 settembre, quando inizierà la decima edizione di Librixia, il festival disseminato tra piazza Vittoria e altri luoghi del centro storico che quest’anno propone 192 appuntamenti.

Come ha dimostrato il successo dell’ultimo Festivaletteratura di Mantova, i festival dedicati ai libri sono sempre più apprezzati dalle persone: offrono momenti privilegiati per sentire dal vivo un autore o un’autrice che ci piacciono e scoprirne di nuovi, tanto per cominciare, cosa che non capita proprio tutti i giorni. In più, se svolti nel cuore della città come accade a Mantova e qui, riescono per qualche giorno a trasformarne l’atmosfera e a coinvolgere anche una parte di cittadinanza di solito meno interessata ai libri.

A Librixia ci saranno anche alcuni redattori e alcune redattrici del Giornale di Brescia, che modereranno gli incontri: se passate, ci salutiamo volentieri. Verranno presentati anche alcuni volumi di cui si è scritto in questa rubrica nelle puntate precedenti. Oggi iniziamo quella dei libri consigliati per settembre con Antonella Lattanzi, autrice di un romanzo denso intitolato «Cose che non si raccontano», uscito con Einaudi pochi mesi fa.

Come sempre, per scriverci vi basta cliccare sulla firma in fondo a ciascuna recensione, qui o sui social. Ci risentiamo entro il 14 ottobre e con chi vuole ci vediamo in giro.

«Cose che non si raccontano»
di Antonella Lattanzi

La copertina di Cose che non si raccontano
La copertina di Cose che non si raccontano

(Einaudi, 2023, pp. 207, 19 euro, ebook 9,99 euro) 

Straziante, senza filtri, diretto. Serve fare spesso delle pause nella lettura di «Cose che non si raccontano», anche se quando lo si tiene tra le mani sarà difficile riuscire a pensare ad altro, per ore. Sono necessarie alcune pause per prendere fiato, spostare lo sguardo solo per un attimo e deglutire il dolore che si impianta in mezzo al petto e commuove molto. Moltissimo.

Antonella Lattanzi ha scritto, denudandosi di ogni paura, un libro coraggioso e catartico, che sa toccare le corde più intime di chiunque abbia mai soffermato il pensiero sull'idea di un figlio. Donne che si interrogano su quando, se e come diventare madri, ma anche uomini che accanto a quelle donne scelgono di esserci, nonostante tutto. L'autrice - nata a Bari e che oggi vive a Roma, dove è anche sceneggiatrice - racconta la sua personale e atroce esperienza: la vicenda di una donna determinata a accogliere una nuova vita, dopo due interruzioni volontarie di gravidanza in giovane età, e a cui tutto quello che può andare storto andrà storto, «anche l'inimmaginabile».

Nelle pagine intense di questo romanzo autobiografico c'è tutto. Dai pensieri più crudi alla vertigine eccezionale di un sogno che prende forma, dai rabbiosi sensi di colpa all'ostinato attaccamento alla speranza, dai corridoi asettici di empatia degli ospedali alla scoperta di nuovi limiti che un corpo non dovrebbe sfiorare mai. Con un montaggio da thriller, pagina dopo pagina, le cose che non si dovrebbero raccontare vengono invece alla luce. La diga di autoprotezione si sgretola e tutte le cose mai dette perché «se non le dico non esistono» esplodono. Uno dopo l'altro, come una frana che trascina giù con sé detriti destinati a farsi macerie, i segreti di Lattanzi ruzzolano a valle travolgendo ogni cosa. In primis, la relazione con il compagno Andrea, apparentemente personaggio marginale e poco influente, ma luminoso protagonista di un viaggio a due, poi a cinque, poi di nuovo a due.

Lo stile di Lattanzi non è per tutti, ma parla a tutti. Per questo, merita l'intera apnea fino alla poesia delicata e reale dell'ultima scena.

(Francesca Renica, vicecaposervizio redazione Web)

«La cartolina»
Di Anne Berest

La copertina di La cartolina
La copertina di La cartolina

(traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o, 2022, pp. 456, 19 euro, ebook 12,99 euro) 

Una cartolina anonima, recapitata alla madre dell’autrice, nel 2003. Una cartolina che ha impressa su un lato l’Opéra Garnier di Parigi e, dall’altro, i nomi di quattro familiari internati ad Auschwitz nel 1942. Il romanzo pubblicato da Edizioni e/o nel 2022 e che è valso ad Anne Berest numerosi riconoscimenti in Francia inizia da qui e non è semplicemente un racconto sull’Olocausto. È innanzitutto una storia che consente alla scrittrice transalpina di conoscere meglio la madre e le sue origini, ma per Berest è anche una ricerca di sé stessa con l’obiettivo di capire cosa significhi oggi «essere ebreo veramente» per un’ebrea come lei, che non pratica (e a volte nemmeno conosce) tutti i riti prescritti dal suo credo religioso. 

«La cartolina» è un libro complesso e coinvolgente. L’indagine di Anne Berest su quella fatidica cartolina anonima è intricata, dolorosa, appassionante e ben scritta. La ricostruzione storica, con qualche tinta di giallo, dell’autrice parigina ti trascina dalla prima all’ultima pagina con un racconto carico di emozioni. Ephraim, Emma, Noémie e Jacques, i quattro nomi impressi sulla cartolina, grazie ad Anne non moriranno mai. Così come sua nonna Myriam, a cui è dedicato un intero capitolo, risulterà una donna indimenticabile. 

C’è chi ha accostato «La cartolina» a «Il diario» di Anna Frank perché le due storie «gettano un ponte tra la tragicità dell’Olocausto e la dura realtà dei nostri tempi». In effetti, anche nel libro di Berest le vite che appaiono travolte dal tempo e soffocate dall’odio con lo scorrere delle pagine riemergono in tutta la loro intensità restituendo ad alcune persone la dignità che meritano. 

(Erminio Bissolotti, redazione Economia)

«Vera gioia è vestita di dolore - Lettere a Mattia»
di Anna Maria Ortese

La copertina di Vera gioia è vestita di dolore
La copertina di Vera gioia è vestita di dolore

(a cura di Monica Farnetti, Piccola Biblioteca 792, Adelphi, 2023, pp. 160, 14 euro)

«Coltiva te stessa: non ti parlo della mente, non del cuore: ti parlo della parte più segreta, la parte immortale di te»: così Anna Maria Ortese scriveva all’amica «Mattia» (Marta Maria Pezzoli), in un carteggio che va dal 1940 al 1944, del quale ci è giunta solo la parte scritta dall’autrice di «Angelici dolori».

Come tutti i carteggi privati, questo, ora pubblicato da Adelphi per la cura di Monica Farnetti e con una nota di Stefano Pezzoli, ci spalanca squarci di intimità, nei quali si entra solo in punta di piedi, e con il vago senso di essere, comunque, degli intrusi. Tuttavia, niente come le lettere rivela la persona dello scrittore. E qui ci pare proprio di vederla, di sentirla, la divina Ortese, giovane ma già pronta a diventare la signora celata dietro lenti scure, sfuggente, che le fotografie dell’età matura ci tramanderanno.

Qui la scrittrice ha 26 anni, ed è travolta dalle tempeste della vita (la morte prematura di due fratelli, le difficoltà dei genitori) e da inquietudini sentimentali (l’attrazione per Alfonso Gatto). Poco sappiamo, in realtà, dell’amicizia tra Anna Maria e «Mattia», che per una vita lavorò alla Biblioteca Universitaria di Bologna: come questo legame nacque, come svanì nel silenzio. Le lettere testimoniano che, finché ci fu comunicazione fra le due, essa fu intensa, affettuosa: «a nessuno come a te io posso parlare come a me», scrive la Ortese.

Dalle «Lettere a Mattia» apprendiamo delle comuni passioni letterarie, quella per Katherine Mansfield su tutte, e di reciproci consigli e incoraggiamenti a scrivere, a non perdersi d’animo, per nulla al mondo. Carteggio prezioso, questo, nel quale Monica Farnetti - curatrice di questa e di altre opere della grande scrittrice - individua «intuizioni oggi riconoscibili come momenti fondativi della sua poetica». «Vera gioia» è un piccolo gioiello, per chi considera la Ortese un’autrice imprescindibile del nostro Novecento.

(Paola Carmignani, redazione Cultura e Spettacoli)

«Le Cosmicomiche»
di Italo Calvino

La copertina di Le Cosmicomiche
La copertina di Le Cosmicomiche

(Mondadori, 2016, pp. 200, euro 12)

A un certo punto della sua carriera, Italo Calvino ha smesso con i romanzi neorealisti e le favole ed è diventato più un ibrido tra narratore e intellettuale (è passato cioè dallo scrivere libri come Il sentiero dei nidi di ragno e La trilogia dei nostri antenati a Se una notte d’inverno un viaggiatore). Quel momento di svolta ha una data e un titolo: 1965, Le Cosmicomiche. Cioè una raccolta di dodici novelle ambientate nello spazio. In questi racconti brevi c’è tutto: amore intenso, rivalità, riflessioni senso dell’esistenza, persino i dinosauri. E personaggi dai nomi impronunciabili. Uno di questi è Qfwfq, che da vecchio narra le avventure vissute insieme agli altri esseri che popolano il cosmo. Alter ego di Calvino, Qfwfq ha assistito alla genesi dell’universo – quando la Luna era ancora praticamente attaccata alla Terra prima che la gravità la spingesse lontano – e ha seguito l’evoluzione darwiniana degli esseri viventi.

Ogni «cosmicomica» è un racconto a sé, ce ne sono alcune più spensierate e altre invece più impegnate. Una in particolare si intitola Un segno nello spazio e contiene i temi che da quel momento assilleranno Calvino per il resto della sua vita: la discrepanza tra l’io e l’altra persona, il rimpianto di una giovinezza più spontanea, l’irrequietudine linguistica. Lo stesso Calvino, in una lettera, la definì la «cosmicomica» di cui era più soddisfatto e che più volte tentò di replicare senza però esserci mai riuscito.

Ma perché lo spazio? Perché – come ci aveva già insegnato Cosimo Piovasco di Rondò che nel Barone rampante aveva deciso di vivere sugli alberi – per capire il mondo in cui viviamo a volte occorre guardarlo da molto lontano.

(Michele Maestroni, redazione Cronaca e Teletutto)

«Bersaglio notturno» 
di Ricardo Piglia

La copertina di Bersaglio notturno
La copertina di Bersaglio notturno

(traduzione di Pino Cacucci, Feltrinelli, 2011, pp. 249, euro 16 - usato, fuori catalogo)

Che ci fa un dandy portoricano cresciuto nel New Jersey in un paesino della pampa argentina che pare addormentato? Ci muore assassinato. Non senza aver attirato su di sé la curiosità, l'ammirazione, le invidie, gli sguardi di tutti. A partire da quelli delle gemelle Ada e Sofia Belladona, appartenenti ad una delle famiglie più ricche del paese, che lo hanno conosciuto, entrambe e approfonditamente, durante un viaggio negli Usa (proprio per loro, a tutta prima, pare giunto in quell'angolo remoto di Argentina), fino a quelli di vicini, allevatori di cavalli - ai cui commerci si dice interessato per conto di misteriosi investitori nordamericani - di fantini e di un efebico portiere d'albergo giapponese.

Un insieme quasi inverosimile, da commedia sudamericana, tanto più se lo si pensa calato all'inizio degli Anni '70, poco prima che Peròn facesse ritorno sulla scena politica di Buenos Aires. Il delitto dell'atipico americano assume altre letture quando viene scoperta una borsa piena di dollari abbandonata nell'hotel teatro dell'assasinio. Moneta pregiata giunta con la vittima da oltre confine in modo disinvolto, in un tempo in cui gli investimenti Usa in un'economia ancora instabile, erano ben visti se non sollecitati. Con il tentativo di uno dei fratelli maschi delle gemelle Belladona di mantenere in vita una fabbrica quando la terra pare essere un destino ineludibile per tutta la gente del posto, il giallo vira e si tramuta in romanzo sociale, caleidoscopico, saga familiare, difficile da imbrigliare sotto una sola etichetta, ma capace di raccontare la perdita dell'innocenza di un Paese al quale l'Italia stessa tanto contributo ha dato (sia i Beladonna quanto l'autore, Ricardo Piglia giornalista, scrittore e docente alla Princeton University, rivendicano le proprie origini piemontesi).

Di certo, nel racconto, giganteggiano le figure di Croce, anomalo commissario che appare più filosofo che indagatore d'azione, e quella del giornalista Emilio Renzi, eteronimo e alterego di Piglia, che dalla città viene catapultato nella provincia per raccontare indagini già chiuse da un giudice corrotto e sopraffattore. Uscito in Italia (tradotto da Pino Cacucci) nel 2011, a pochi mesi dalla sua pubblicazione in lingua spagnola, è stato riproposto di recente dalla barcelloneta Editorial Anagramma (Gruppo Feltrinelli), che lo ha incluso tra i romanzi della collana celebrativa dei suoi 50 anni di attività. Come a dire che le atmosfere lontane, nel tempo e nello spazio, di quella pampa umida e brumosa di mezzo secolo fa, in realtà hanno ancora molto da raccontarci sulle tensioni eterne e le contrapposizioni che alimentano in forme diverse le società di ogni stagione e contesto. Sembra rivelarcelo l'autore in una battuta messa in bocca al commissario Croce, quasi un manifesto del suo intendere la letteratura noir: «Comprendere […] non consiste nello scoprire fatti, né trarre deduzioni logiche, e meno ancora costruire teorie, ma solo nell’adottare il punto di vista adeguato per poter percepire la realtà […] È un po’ come giocare a scacchi, bisogna aspettare la mossa dell’altro».

(Gianluca Gallinari, vicecaporedattore Web)

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