«Argon»: Michele Gazich torna in viaggio, in compagnia dei poeti

Bisogna vaccinarsi contro le parole banali, il canto «scolastico» e indistinguibile, le canzoni scritte per (e con) gli algoritmi... Ovvero: serve l’Art pass, per entrare in un disco di Michele Gazich. Ma, poi, c’è la certezza che ci si potrà avvicinare a poeti, a musiche colte ed insieme popolari, ad interpreti che condividono un modo di concepire ruolo e forme espressive.
Venerdì prossimo, 26 novembre, esce il nuovo album dello «scrittore di canzoni» bresciano. S’intitola «Argon». Ed è, ancora una volta, bellissimo. Lo abbiamo ascoltato, in anteprima, davanti al mixer dello studio dov’è stato inciso: il MacWave di Paolo Costola, in città. Le registrazioni sono durate (a più riprese) oltre due anni, dal 17 maggio 2019 al 9 giugno scorso. Ma alcuni abbozzi di brani erano molto, molto più risalenti. Eppure, non c’è traccia di sviluppi per addizione, affastellamenti, ipertrofia dell’ego. Al contrario, l’opera ha il nitore del processo per sottrazione. Otto brani, per un totale di una quarantina di minuti, che sono un distillato. Di lavoro. Ma anche di vita, di esperienze, di conoscenze. E di cultura.
Il disco, in anteprima
La copertina, da un’idea di Milo Scott, è la casella «di appartenenza» della tavola periodica degli elementi. Aprendo il libretto, si incontra la riproduzione di una frase autografa: «Una corda slegata ormeggia il fiume». È di Jean Flaminien. Michele ha «osato» accostarlo nel 2019, ad un festival letterario a Venezia, per farsi fare una dedica su uno dei libri che possedeva di questo grande vecchio della poesia in lingua francese, di origine guascona. Ne ha ottenuto, in italiano, parole sulle quali meditare, divenute poi il seme per la canzone «Fiume circolare».
Nella title-track, Gazich paragona il suo impegno - che avviene, «per forza o per scelta», in segreto - a quello delle api e dei lombrichi. Aggiungeremmo uno di quegli animali che fanno scorta di bacche e ghiande di cui cibarsi in vista dell’inverno (delle menti); per poi condividerle. Ed è a dir poco stimolante misurare la (felice) sproporzione grafica tra i testi, più immaginifici ed evocativi che assertivi, e le spiegazioni della scaturigine, che riempiono gli scaffali di una libreria e di un’esistenza.
Il disco si apre proprio con «Argon». Il gas nobile, detto inerte e raro. Ma anche titolo di un racconto di Primo Levi. E il passo verso una preghiera in uso nella comunità ebraica piemontese è quasi naturale. La collocazione all’inizio fa anche da filtro, essendo questa la traccia potenzialmente più ostica, con le sue continue variazioni interne. Si fatica, su un sentiero che non è quello della «normale» forma-canzone, accompagnati dal violino (strumento d’elezione dell’artista bresciano, ma nell’insieme dell’album usato con la giusta misura) e dal bouzouki di Giorgio Cordini, dal recitar cantando quasi rauco in dialogo, ad un tratto, con la magnifica voce di Rita Tekeyan che si libra celestiale dopo essere emersa da un sottosuolo di sofferenza... Alla fine, c’è come la sensazione di avere conquistato una vetta. Ed è così. Perché, poi, il cammino e il respiro si fanno più sciolti.
A cominciare da «La Maga e Lo Straniero», già lanciato come singolo, in duetto con Giovanna Famulari. Un brano quasi orecchiabile, che rimanda in certe sue parti a Fabrizio De André, per quanto il popolare si sposi con il colto, la spiaggia con le antiche corti veneziane, la rima con Pier Paolo Pasolini (vedi il video).
La prima cover, di Dalla
«Ulisse coperto di sale» è la sorpresa. Perché - al decimo album in studio - è la prima cover. Da Lucio Dalla. E perché l’interprete grida, lasciando di... sale chi pensa che non abbia la voce. Vi è, comunque, coerenza interna, perché le parole sono di un certo Roberto Roversi e perché «l’insanabile divario tra poesia e canzone esplode e si risana attraverso un folle volo di ritorno ad Ulisse e ad Omero». Un altro poeta, Eugenio Montale, è inquadrato prigioniero «di un corpo sempre più mortale». Ma «Canticchiare aiuta» e il testo... testamentario è bilanciato da aperture morriconiane e frammenti di filastrocca.
Anche il Gabriele D’Annunzio di «Il Vittoriale brucia», di cui già abbiamo più volte scritto, è al crepuscolo, prigioniero e sedato. Vittima dell’ignoranza del tiranno, di tutti i tiranni, «che uccidono i poeti, che rinchiudono i poeti». Ci limitiamo, qui, a testimoniare - rispetto al nucleo originario della canzone - il perfezionamento, raggiunto anche con la sullodata (in senso letterale) Tekeyan, giustamente definita «vox paradisiaca», e Lara Molino, la «voce abruzzese». Quando la semplicità può essere una forza, comunque, non c’è bisogno di nulla, neppure del costante contributo del fido Marco «Tibu» Lamberti. Per quel gioiellino ch’è «Il fuoco freddo della luna» bastano, così, la voce di Gazich e la fisarmonica di Vincenzo Castrini (per guardare, comunque, a Paul Celan e Ingeborg Bachmann). Per «Fiume circolare» ancora Michele e ancora «Titti», più un pianoforte e Rita.
Chiude la toccante «Lettera a Claudio». Dedicata al compianto Lolli («Ci hanno invitati al funerale dell’utopia / Ma tu eri morto e non ti hanno trovato»), ma, in fondo, all’intera schiera di autori ai quali Michele Gazich sembra guardare («Poeta sconfitto, io ti dico che non hai mai perso»). E quando si spegne l’eco dell’ultima nota, ti trovi ad immaginare di essere ad un concerto, pronto ad aggiungere il tuo a scroscianti, quasi liberatori applausi.
Inutile sperare che ciò avvenga da parte delle folle. Quella dei lombrichi e delle api è proposta di nicchia. E questa è proprio la cultura con cui non si mangia. Eppure che nutrimento, un’opera così.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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