Cucina

Vino. Addio ai sommelier «superesperti»

No a termini difficili e autoreferenzialità. Meglio un degustatore cordiale in «jeans»
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E se i sommelier, dotti, un po' criptici nelle loro valutazioni tecniche, quasi sempre autoreferenziali, contribuissero alla diminuzione di consumo di vino? Il dubbio è venuto ad un blogger del settore che racconta una scenetta cui, se allungate un po' le orecchie al ristorante in barba alla privacy, avrete assistito mille volte. È quella dell'esperto di turno che assaggia il vino per tutta la combriccola, lo rigira nel bicchiere, alza gli occhi meditativo al cielo, scuote la testa e poi approva senza proferir verbo mentre i compagni intimiditi (e assetati) aspettano in reverente silenzio e a bocca asciutta. Poi spara una diagnosi inappellabile dalla quale si desume che di certo si coglie sentore di pipì di gatto, o magari di idrocarburi, o ancora di cuoio vecchio. Il mago del vino chiama goudron l'asfalto e foxy il sentore di volpe in fuga dal corno dei cacciatori. In un mondo dove si è perso nella memoria comune persino il profumo dell'erba tagliata di fresco, fare riferimento al sentore di cavallo sudato sembra davvero troppo. Tanto più che l'esperto di turno raramente concede la sentenza che interessa a tutti: è buono o non è buono?
Chi il vino deve venderlo e farlo bere comincia a diffidare dei maghi. Il complimento più gradito ad un produttore di vino non riguarda la struttura o lo speziato, ma che sia «un vino da secondo bicchiere».
Quelli del Consorzio Colli Berici hanno cominciato a dubitare che bicchieri (fossero anche i mitici tre) stelline e voti facciano vendere più vino e si sono posti qualche interrogativo scomodo senza aver paura di passare per quelli che «sparano sulla Croce Rossa». Lo hanno fatto con decine di interviste ad un ipotetico signor Mario che si sono concluse con un convegno a Vicenza dal titolo ammiccante: «Dal sentore di cavallo sudato al vino da gustare». La proposta più interessane è venuta da Fabio Piccoli, esperto di marketing che sta già mettendo l'idea alla prova a favore del Trento doc: inventare gli animatori del vino che sappiano parole semplici, immediate, di facile comprensione. Naturalmente gli «animatori» devono essere adeguatamente preparati per far fronte anche ai più informati, ma non esibire scienza e astrusità.
L'occasione è servita anche per tracciare l'identikit del fantomatico Mario (o Maria). Partiamo da un dato positivo. Se mettete in una giuria (come è stato fatto) alcuni signor Mario accanto a dei professionisti, l'esito del concorso non cambierà di una virgola: vincerà il vino migliore, più suadente, più beverino, più equilibrato.
Allora il signor Mario se ne intende? Giudicate voi. L'indicazione massima di qualità risulta essere la Doc, mentre Mario della Docg se ne fa un baffo. Il nostro non ha dubbi che lo spumante «frizzi» perché si è aggiunta anidride carbonica. Lo spumante più dolce è forse il brut, escluso che si tratti del Demi sec. Va da sé che il Fior d'Arancio è un vino siciliano (con gran delusione per i Colli Euganei dove nasce).
Altro luogo comune è che la carta dei vini imbarazzi il cliente. Non è così: a spaventarlo sono i ricarichi. Già, perché il bevitore medio compra al supermercato e spende in media 1,24 euro. La bottiglia importante gli interessa, ma preferisce scoprirla da solo.
Dall'incontro vicentino è emerso che sulle caratteristiche organolettiche del vino vincono di gran lunga, per capacità persuasiva, le storie di uomini, di territori e di aziende. Lo proverebbe anche il crescente successo delle vendite in cantina.
E il sommelier? Di recente una catena di supermercati ha messo dei sommelier in divisa, tastevin al collo, tra gli scaffali del vino. Ebbene? La gente imbarazzata cambiava corsia.
Il futuro? Forse i sommelier in jeans, senza punteggi, senza schede di degustazione e con una vagonata di gioia di vivere e di stare in compagnia.

Gianmichele Portieri

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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